La Tazza Farnese

Una coppa delle libagioni iniziatica e Astrale

I millenari segreti della Tazza Farnese, allegoria delle piene del Nilo,
evergetismo politico dei Tolomei, mappa astronomica degli Egizi
e mistica anticipazione del Poimandres

Nel mondo antico, e in special modo in quello delle culture ellenistiche, non c’era religione che non utilizzasse durante le funzioni cerimoniali una coppa delle libagioni e soprattutto non c’era religione misterica, a cominciare dall’Orfismo, che non prevedesse nel rito iniziatico il giuramento del neofita su una coppa o per lo meno su un oggetto similare contenente un liquido sacro.
Stando alla ricca messe archeologica pervenutaci, si tratta quasi sempre di manufatti preziosi per i materiali in cui sono realizzati, per le raffinate decorazioni simboliche che li ornano e, non di rado, per le iscrizioni che, insieme al luogo di ritrovamento, permettono di definirne la datazione, l’appartenenza e l’uso specifico. Dal punto di vista formale, sono recipienti circolari concavi (phiale in greco e patera in latino) a bordo basso, senza anse e manici, ma provvisti di una depressione (omphalos) al centro della superfice esterna inferiore, per assicurarne la presa, in modo che l’oggetto resti appoggiato saldamente nel palmo della mano, come mostra l’iconografia di tante pitture vascolari e di altrettanta coroplastica votiva.

La storia
Tra gli esemplari più belli e preziosi, ma anche più misteriosi, si colloca la “Tazza Farnese”, cosiddetta perché facente parte dell’immensa collezione del suo ultimo proprietario: Carlo di Borbone, figlio Filippo V ed Elisabetta Farnese, che divenuto re di Napoli e di Sicilia nel 1735, la donò allo Stato istituendo, nella Reggia di Capodimonte e nel Palazzo dei Gesuiti, i Musei napoletani dove tuttora le raccolte sono esposte al pubblico.
Ricavata da un unico pezzo di agata sardonica, di dimensioni eccezionali, la phiale, che ha un diametro di 20 centimentri, non proviene da uno scavo archeologico, ma, secondo un’attendibile ricostruzione, dalla proprietà dei Tolomei, dinastia reale macedone, stabilitasi in Egitto nel 322 a.C.
Non si sa chi sia l’autore e dove e quando sia stata realizzata, ma a livello artistico non ha eguali per la raffinata perizia con cui l’ignoto artista ha sfruttato le vene e gli strati del cammeo per dare rilievo ai personaggi che compongono la scena scolpita al suo interno.
Da più di 2000 anni la vulgata racconta che Cleopatra VII, ultima regina d’Egitto, l’avrebbe portata a Roma nel 46 a.C. per ufficializzare, con questo prezioso dono, la paternità del piccolo Tolomeo Cesarione, figlio suo e di Giulio Cesare. Alla morte dei protagonisti di questa storia (31 a.C.) la phiale sarebbe passata ad Ottaviano Augusto che l’avrebbe usata nelle libagioni rituali pubbliche, officiate in qualità di pontefice massimo, o molto più semplicemente l’avrebbe conservata con cura, lasciandola in eredità ai suoi successori.
Certo è che Ovidio e Virgilio, con alcuni riferimenti poetici, fanno ipotizzare di conoscere molto bene il simbolismo attribuito a questa coppa e pare che ad essa, o per lo meno alle caratteristiche del minerale in cui è scolpita, faccia riferimento Plinio il vecchio, descrivendo le qualità della sardonice indiana nella sua Naturalis Historia.
Sembra, anche, che il prezioso oggetto sia restato nell’Urbe fino a Costantino il Grande che l’avrebbe riportato in Oriente e precisamente a Costantinopoli, nella Corte imperiale. Qui, infatti, nel 1239 Federico II l’acquistò per una somma enorme, riportata in un documento curiale che, definendola «magna et pretiosa scutella», la descrive minuziosamente.
Con la morte dell’Imperatore se ne perdono le tracce e alcuni, a motivo di un disegno ad inchiostro su carta, firmato e datato 1430 da Mohammed al-Khayyam, artista nella corte di Samarcanda, hanno ipotizzato che fosse arrivata fino in Persia, ma per Ennio Quirino Visconti restò sempre nella corte napoletana tanto che1460 riappare in possesso di Alfonso V di Aragona Trastámara che lo stesso anno la cede al potente cardinal camerlengo Ludovico Trevisan, appassionato di antichità, il quale nel 1465, a sua volta, la lascia in eredità a papa Paolo II Barbo.
Nel 1474, infine, Sisto IV della Rovere la vende a Lorenzo de’ Medici che la inserisce nella sua preziosa raccolta di gemme e cammei. Da quel momento la “scutella” come è generalmente chiamata, avrà una puntuale e frequente documentazione, come l’atto con il quale 13 giugno 1536 Alessandro de’ Medici, l’assegna in dono nuziale a Margarita d’Austria, figlia di Carlo V e sua moglie, la quale la terrà sempre tra le cose più care e vicine alla sua persona, attribuendole poteri magici e protettivi.
Nell’inventario delle “Robbe della Felice Memoria di Madama Serenissima Margherita d’Austria” redatto a Ortona il 26 febbraio 1586, i notai farnesiani trascrivono che la «tazza d’agata, intagliata et lavorata con otto figure di basso rilievo dentro et nel fondo, di fuoravia una testa di Medusa, busata in mezzo» è chiusa in un «cofano, coperto di vacchetta negra, con due serrature et un lucchetto nel mezzo», posizionato ai piedi del letto in cui Madama era morta.
Per eredità familiare la «magnifica scutella», il cui possesso sarà a lungo e inutilmente rivendicato da Caterina de’ Medici, regina madre di Francia , passerà ad Alessandro, il figlio nato dal secondo matrimonio con Ottavio Farnese ed arricchirà la celebre collezione parmense e romana che, tre secoli dopo, Carlo di Borbone trasferirà a Napoli.

Scipione Maffei e Ennio Quirino Visconti – I primi studi
Sulla “Tazza Farnese”, e persino sui calchi e copie su di essa realizzati, esiste una sterminata letteratura di carattere storico, artistico ed esegetico che fino ad oggi non è riuscita a trovare un punto di accordo sulla datazione, la committenza, il mito, il simbolismo che racchiuderebbe nella scena che ne orna la parte interna. Punti fermi (ma con qualche eccezione) sono l’esecuzione in una bottega ellenistica di Alessandria, durante il regno tolematico.
Scolpita ad alto rilievo su ambo le superfici, porta sul fondo esterno una gorgoreion di carattere apotropaico e all’interno sette figure simboliche a cui sono state date varie interpretazioni allegoriche e morali.
Tra le prime si pone quella di Scipione Maffei (1738) che, prendendo spunto dalla Sfinge, ne sostiene l’origine egizia, la committenza faraonica e la datazione sotto il regno di Tolomeo XII, detto l’Aulete (100-50 a.C.), ma l’analisi più convincente resta quella del già citato Ennio Quirino Visconti, dottissimo prefetto delle antichità pontificie e poi, durante il periodo napoleonico direttore dell’istituendo museo del Louvre, che, ribadita la funzione rituale del manufatto, considera la scena interna un’allegoria del Nilo, visto come apportatore di abbondanza e di civiltà.
Il fiume, secondo una diffusa iconografia anche monumentale, è da identificare nel personaggio maschile sulla sinistra, seduto all’ombra un albero e con in mano una cornucopia. Accanto a lui, un giovane (Horus-Tritolemo) avanza con il sacco delle sementi e l’aratro.
La figura femminile e la sfinge su cui essa è adagiata, rappresentano la coppia Iside-Osiride punto centrale della cultura religiosa alessandrina, mentre le due donne poste a sinistra sarebbero le Horai, personificazioni delle stagioni, e i due geni volanti i venti Etesii che regolano le piene del fiume.

Adolf Furtwaengler. La centralità di Iside Euthenia
Sull’interpretazione di Visconti, sostanzialmente esatta e comunemente accettata per tutto l’Ottocento, si basa agli inizi del secolo successivo quella di Adolf Furtwaengler che confrontando i personaggi che compongono la scena con la monetazione alessandrina del periodo tolemaico, ne dà una spiegaziome più dettagliata, ma non in grado di determinarne il periodo di realizzazione che, a suo avviso, resta aperto dal III al II secolo a.C.
L’uomo barbuto raffigura il Nilo, secondo il modello della statua di culto di cui si è detto; la figura femminile seduta sulla Sfinge, posta a riferimento della cultualità religiosa egizia, è Euthenia, divinità della pioggia e delle inondazioni, rappresentata con gli attributi delle spighe e assimilata con l’ellenismo a Demetra, il contadino-seminatore è Trittolemo, spesso associato ad Horus.
Nel cielo volano i venti etesii e le due giovani donne sedute a destra personificano le due stagioni più importanti del ciclo trinario egizio: ambedue si appoggiano ad un covone di grano, ma quella del diluvio porge una coppa e quella della mietitura regge una cornucopia.

Jean Charbonneaux. L’evergetismo tolomaico e l’allegoria religioso-politica
Partendo da una ipotizzabile commitenza, Jean Charbonneaux (1895 – 1869) si prova a individuare nelle figure allegoriche le sembianze di personaggi della dinastia regnante, la qual cosa gli permette di proporre la data di esecuzione entro i limiti di un circoscritto periodo.
Convinto che un oggetto così prezioso possa aver avuto solo una commitenza regale, che naturalmente avrebbe preteso di essere identificata nei personaggi o nei particolari che compongono la scena, nota che la pettinatura della figura femminile centrale è «à boucles en tire-bouchons», un modo di acconciarsi ben documentato nella ritrattistica e nella monetazione in uso dal regno di Tolomeo II (308-246 a.C) a quello di Tolomeo V Epifane (210-180 a.C.), e che la sfinge sulla quale essa è adagiata indossa il copricapo regale, come si addice alla rappresentazione del faraone defunto.
Stando alla documentazione glittittica e sfragistica già esaminata da Furtwaengler, ritiene che la regina che dà il suo volto alla figura femminile distesa sia Cleopatra I (215-173 a.C.) vedova di Tolomeo V e reggente in nome del figlio TolomeoVI. Identificati i personaggi, ne consegue che l’esecuzione della phile va circoscritta tra il 180 e 173 a.C.
Per quanto riguarda l’interpretazione simbolica, fermo restando la relazione della figura barbuta con il Nilo, dei genii volanti con i venti Etesii, delle due Horai con le stagioni, ritiene che l’allegoria principale sia racchiusa nella triade divina (Osiride-Sfinge, Iside-Donna con le spighe, Horus-Seminatore) che governa la fertilità dell’Egitto. Ad essa si soprappone la sua proiezione terrena, rappresentata non solo idealmente, da Tolomeo V, trasformatosi dopo la morte in Osiride, da Cleopatra I che, come Iside del Grande Trono, governa in sua vece e da TolomeoVI che interpretando Horus-Tritolemo assicura la stabilità dinastica.
«Dans la représentation d’un mythe égyptien interprété à la manière grecque, donc accessible à la fois aux Grecs et aux Égyptiens,- conclude Jean Charbonneaux – la tasse Farnese nous proposerait donc un clair symbole de l’efficacité divine de la puissance royale en même temps que de la continuité dynastique des Ptolémées».

Le obiezioni di Friedrich L. Bastet
Di altro parere è Friedrich L. Bastet (1926 -2008), secondo il quale è impossibile indicare una datazione precisa, anche se la collocazione tra il II e I secolo a.C. appare la più ragionevole. Benché l’alto valore artistico del manufatto lo renda un pezzo unico, di cui è difficile trovare il confronto, tuttavia per qualche affinità stilistica della composizione con le scene scolpite sulle lastre decorative dell’Hekateion di Lagina, nell’Anatolia occidentale, egli lo giudica opera tardo ellenistica, il che gli permette di assegnarla intorno al 100 a.C. e, mantenendo la lettura evergetica, di ipotizzare nella triade centrale il ritratto di Cleopatra III (160-101 a.C.) vedova di Tolomeo VIII e reggente per il figlio Tolomeo IX. Riguardo il significato allegorico della composizione, pur non avanzando nessuna ipotesi, si dice convinto che il simbolismo di un’opera così aulica non faccia riferimento solo alle inondazioni stagionali del Nilo.

I cieli egizi di Reinhold Merkelbach
Reinhold Merkelbach (1918-2006), tra i maggiori archeologi e filologi classici del XXI secolo, collega il significato esoterico delle immagini, proiettate in una simbologia astrale, alla funzione rituale della phiale.
A suo avviso tutte le figure traggono significato dalla scienza astronomica egizia e condividono con quella greca solo la denominazione delle divinità, seguendo il percorso di occidentalizzazione messo in atto dai Tolomei. Infatti si dice convinto che la cosiddetta Tazza Farnese, dal punto di vista artistico, sia il risultato della temperie culturale, gravitante intorno alla Biblioteca di Alessandria, diretta tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C. da Eratostene, alla cui teoria astronomico-mistica, esposta nei Catasterismi, va riferita la scena, da leggere, dal punto di vista astrofisico, come un vera e propria mappa stellare.
Ampliando quanto aveva già pubblicato in un precedente studio, Merkelbach espone le ragioni per le quali, a suo avviso, la “barbarisch sphaera” rappresenti un’allegoria della costellazione di Orione, intorno al quale ruotano i pianeti e le stelle collegate all’inondazione del Nilo.
Per dimostrare la sua teoria parte dal presupposto che gli egiziani, calcolando le due stagioni principali (la piena del Nilo e il raccolto) con i movimenti di trentasei stelle (i Decani), distanti 10 gradi una dall’altra, collegavano l’inizio dell’inondazione con l’ascesa di Sothis (Sirio), identificata con Iside. Nello stesso periodo la costellazione di Orione inizia la sua annuale risalita nel cielo notturno, impersonando simbolicamente il ritorno di Osiride dal regno dei morti.
Dal suo incontro con Iside-Sothis, nel punto in cui il percorso del Sole, della Luna e dei pianeti incrocia la Via Lattea, ovvero nel solstizio d’estate, nasce Horus il giovane. Sulla scorta di Eratostene e del mito platonico delle due porte, l’ignoto incisore alessandrino interpreta l’annuale inondazione del delta del Nilo come la sublime allegoria della cosmogenesi e della rifondazione del tempo primordiale.
Inquadrati in quest’ottica, ciascuno dei personaggi che compongono la scena centrale è collegato ad una costellazione e relativo pianeta: Osiride diviene Serapis, associato al Toro e a Saturno, Horus è il demiurgo solare ed è associato ad Orione, Iside-Euthenia, distesa sulla Sfinge, rappresenta il Nilo ed è assimilata alla costellazione fluviale dell’Eridano. Intorno a questa triade si muovono la costellazione dei Gemelli (i venti Etesii), in relazione con i pianeti Giove e Marte, e quella dei Cani da caccia (le Horai) collegata alla coppia di pianeti Venere e Marte. A differenza della teoria astronomica che suscitò larga eco di consensi negli studi successivi, la datazione proposta da Merkelbac, tra il 240 e il 194, fu accolta con molte perplessità a motivo dei caratteri stilistici del manufatto incompatibili con una collocazione così alta.

Eugenio La Rocca. Una benda imperiale tra i riccioli di Cleopatra
Con l’indagine storico-politica, di Eugenio La Rocca, che considera la Tazza Farnese l’ultima preziosa espressione dell’età tolemaica, entra in scena Cleopatra Tèa Filopàtore, designata VII, o semplicemente e per eccellenza Cleopatra, la regina, che con Giulio Cesare prima e con Marco Antonio poi, aveva coniugato il futuro imperiale dell’Egitto con i suoi più intimi affetti.
L’analisi parte dalla figura femminile che occupa la scena centrale e, tenendo per fermo che si tratti di una regina alessandrina, si appunta sul suo aspetto ed in particolare sulla acconciatura, già evidenziata Jean Charbonneaux, per sottolineare che, nonostante il nodo isiaco che le divide i seni, la protagonista della storia non indossa il copricapo regale “dell’alto trono”, ma trattiene con un’ellenistica benda i capelli intorno al volto.
Le uniche regine tolemaiche – nota La Rocca – che la rittrattistica ufficiale mostra a capo scoperto sono Berenice II Ervegete (267-221 a.C.), reggente cirenaica celebre per i suoi capelli e Cleopatra VII, impegnata a divinizzare la sua persona come «néa Isis». Scartata la prima per evidenti ragioni stilistiche, l’indagine prende in esame gli anni che vanno dal 37 al 34 a.C. quando, in un periodo di massimo splendore del Triunvivato, la Regina, dopo il riconoscimento ufficiale della paternità di Cesare per il figlio che assume il titolo di Tolomeo XV Filopàtore Filomètore Cesare (47-30 a.C.) porta avanti il progetto politico di un Egitto come stato autonomo, ma associato a Roma.
L’aspirazione era del resto sostenuta da Marco Antonio che, consapevole della decadenza in cui versava l’amministrazione delle province, affidata ad una pletora di pretori e governatori corrotti, auspicava la formazione di una diaspora che si avvalesse delle risorse locali, se non altro più esperte nelle questioni legate al territorio. Il progetto, che contrastava con la visione imperiale e dinastica di Ottaviano, venne, come è noto vanificato per sempre con la Battaglia di Azio e la morte di Cleopatra, di Antonio e del giovanissimo Tolomeo XV.
L’indagine di Eugenio La Rocca si conclude con l’affermazione che la coppa rituale è il risultato di un linguaggio politico tardo ellenistico alessandrino che fondava sul fascino di una religione misteriosa e millenaria, il disegno ambizioso ed innovativo di un Egitto centrale nella strategia degli equilibri romani tra l’Occidente e l’Oriente. Per attuarlo, con l’autorevolezza che le conferiva una progenie gloriosa, l’ultima Regina tolemaica si presentava, assumendone gli atteggiamenti e gli aspetti ieratici, come la nuova Iside divina in grado di gestire il destino del mondo e degli uomini.

Le originalità americane
Con la magistrale indagine di Eugenio La Rocca, si potrebbe considerare ottimamente concluso questo repertorio esegetico sulla Tazza Farnese, se non fosse che la disamina critica impone di prendere in considerazione, a livello espositivo, anche gli studi che propongono teorie poco convincenti e, in un certo senso, tanto originali da sembrare persino bizzarre.
Si tratta di due lavori editi entrambi nel 1992 sull’American Journal of Archaeology, organo dell’Archaeological Institute of America che ha sede a Boston, il primo da Jonh Pollini all’epoca professore di Storia dell’Arte all’University of Southern California di Los Angeles, il secondo da Eugene J. Dwyer, anch’egli professore di Storia dell’Arte, ma al Kenyon College Gambier dell’Ohio.

John Pollini: Redeunt Saturnia Regna!
Partendo dal celebre verso della quarta ecloga virgiliana e interpretando Ottaviano come l’Apollo della rinascita morale di Roma, John Pollini costruisce l’interpretazione della Tazza Farnese attribuendo la commitenza della phiale all’erede di Cesare che l’avrebbe fatta realizzare, dopo la battaglia di Azio, non necessariamente ad Alessandria, ma forse a Roma che a quel tempo pullulava di artisti greci ed egiziani.
Dopo averla descritta e paragonata, come esempio glittico, alla cosiddetta “Gemma di Augusto” propone un’interpretazione innovativa, che non considera affatto quelle precedenti, che anzi giudica fuorvianti in quanto tutte impostate sul presupposto che le figure che compongono la scena facciano riferimento alla corte tolemaica e che, in alcuni casi, siano il ritratto dei suoi protagonisti.
Quella che si accinge ad esporre, è infatti imperniata sul postulato che la tazza rappresenti, in senso storico, la prima allegoria della Pax Romana, celebrata con i Ludi saeculares (17 a. C) e l’erezione dell’Ara Pacis a Campo Marzio (9.d.C.), due eventi cantati dai poeti come il ritorno della mitica età dell’Oro, non solo nella «Saturnia tellus» ovvero nella Penisola e nelle sue isole, ma in tutto l’ecumene sottoposto a Roma.
Ricercando il protagonista di questo felice tempo delle origini, inizia l’analisi dalla figura barbuta che occupa la parte sinistra della composizione (il Nilo secondo l’esegesi precedente) e a a motivo delle sue dimensioni maggiori rispetto alle altre, le assegna il ruolo di interprete, in grado di dare un senso all’intera scena e ai personaggi che la compongono. Poiché gli sembra che l’«old man seated on tree», non abbia nessun carattere egizio e che l’albero a cui è appoggiato sia un olivo, vi riconosce il malinconico Saturno il cui simulacro «Romae intus oleo (est) repletum»
Stabilito che questa pianta è un riferimento alla «Saturnia Tellus», l’elemento che collega la figura centrale (Tritolemo-Horus) al vecchio dio coltivatore (sator) è il falcetto potatorio che il giovane regge nella mano sinistra, mentre con la destra innalza la barra dell’aratro, il giogo e le funi per assicurarla al collo dei buoi, attributi che, insieme al sacco delle sementi e alla corta tunica da contadino, lo qualificano come agricoltore.
Tutto nella norma, dunque!
Nemmeno per sogno perché non del mitico discepolo di Demetra si tratta, né della risplendente divinità della Grande Enneade di Eliopoli, ma di un barbaro, anzi per dirla direttamente con Pollini «the embodiment of the young Gallic principes who raised their own troops in service to Rome and after the completion of their duty returned home wealthy, respected, and most importantly for Rome, learned in the ways of Graeco-Roman civilization».
In altre parole la figura rappresenta l’emblema dell’emergente ceto barbarico che ha servito l’esercito romano nelle truppe ausiliarie ed è stato ricompensato con l’assegnazione di fertili e vasti appezzamenti coltivabili, ma anche con una civilizzazione che gli ha permesso di acquisire un livello culturale superiore a quello di provenienza. Per questo – fa notare – il personaggio raffigurato, forse un viticultore e un esportatore di vini, prodotti che rendono ricche le Gallie, non indossa i calzoni e non esibisce i vistosi baffi barbarici, ma poiché un segno che indichi il suo passato deve pur averlo, ecco allora che l’artista lo ha raffigurato con i capelli scompigliati e l’aspetto un po’ selvaggio.
Passando alle altre figure della Triade centrale «The sphinx – ammette Pollini – and the reclining female with Isaic hair curls, distinctively knotted dress of Isis,and royal Hellenistic diadem are unmistakably associated with Egypt», ma nel caso in questione è la rappresentazione paradigmatica di un’area geografica, di un popolo, di una cultura e persino di un aspetto economico dell’Egitto, a cui alludono le spighe che la dea con i seni nudi tiene in mano.
La stessa sorte subiscono le figure volanti che da venti Etesii diventano uno la Borea invernale che soffia al Nord, l’altro lo Zefiro orientale per il Sud; e le ninfe, che chiudono la scena a destra, sono sempre le stagioni, ma quella seduta vicino ai covoni è l’estate, indifferentemente della Saturnia Tellus o dell’Egitto, del resto ambedue granai dell’impero, mentre, quella con la patera, in cui ci sarebbe il vino, è l’autunno delle Gallie grande produttrice di questo liquido inebriante.
Infine la tazza, commissionata da Ottaviano Augusto per riunire in un oggetto simbolico le grandi province (le Galloie e l’Egitto) pacificate e prospere sotto la Pax romana, avrebbe avuto funzioni rituali, beneauguranti e magiche e sarebbe stata usata in solenni cerimonie pubbliche in specie in quelle celebrate per salutare l’avvento dell’Età dell’oro, come i già ricordati Ludi saeculares e per l’inaugurazione dell’Ara Pacis a Campo Marzio.

Eugene J. Dwyer. Il poimandres illustrato
Altrettanto sopra le righe, ma anche distante dalla proposta augustea di Pollini è il lungo saggio di Eugene J. Dwyer che accettando la teoria astronomica di Reinhold Merkelbach, supera il misticismo astrale di Eratostene e sposta l’esegesi alla filosofia ermetica del Poimandres e, più precisamente alla cosmogonia che vi è esposta.
Nel dialogo che apre, il Corpus Hermeticum, Poimandres (lntelletto o la Causa prima) rivela ad Ermete Toth una straordinaria visione della creazione dell’universo: dalla Luce (Nous, Padre, Monade), nasce una oscurità informe e pesante (Madre, Diade) che precipitando prende il nome di Natura poiché è composta dai quattro elementi che però sono mescolati tra loro, procurandole grande dolore. Il Logos (il Figlio nato dalla Luce e terza persona della Triade) giunge in suo aiuto prima separando il Fuoco e l’Aria che salgono verso l’alto e infine attivando la Terra e l’Acqua che restano in basso.
Quindi, i primi sette Enti che emergono da questo quadro cosmico sono Luce, Natura, Logos, Fuoco, Aria, Terra e Acqua e precisamente ad essi fa riferimento la scena raffigurata nella tazza.
Il Nilo (la grande figura a sinistra appoggiata all’albero è l’allegoria del Nous, la donna sdraiata (identificabile con Iside) è la Natura, mentre la Sfinge Horus è il Logos demiurgo. Confermata la Triade divina, ovviamente le figure volanti sono il Fuoco e l’Aria, mentre le due ninfe a destra raffigurano rispettivamente, quella con la patera l’Acqua e quella appoggiata ai covoni di grano la Terra.
Esposta la sua esegesi Dwyer, si dedica all’iconografia e considerato che l’inondazione annuale dell’Egitto è l’allegoria della creazione dell’universo e che quindi il Nilo rappresenta il Primo Intelletto (Nous), comincia l’analisi da lui, associandolo a Osiride-Serapide, ma anche ricordando che il fiume potrebbe essere una divinità autonoma, in quanto in tutto l’Egitto gli erano dedicati molti templi, come quello dell’isola di Elefantina alla prima cataratta.
Dal punto di vista artistico l’immagine rimanda anche ad Agathos Daimon, una divinità o forse solo un’ipostasi sincretica di Khnum, il vasaio che plasma le creature con la creta, il quale nella monetazione alessandrina, coniata dal III al I secolo a.C., è raffigurato nelle sembianze di un uomo vigoroso che tiene in mano una grande cornucopia simbolo di prosperità e benignità che egli riversa sul genere umano.
La Diade Natura è la donna sdraiata sulla sfinge. Abbigliata come una regina tolemaica è però a seno nudo per indicare il nutrimento che offre spontaneamente all’umanità, attributo a cui attengono anche le spighe che tiene in mano.
Come aveva dimostrato Adolf Furtwaengler, sempre sull’osservazione del conio alessandrino, assume l’aspetto di Iside Euthenia, personificazione della fecondità e, in questo senso, rafforza gli attributi del Nilo-Nous, di cui del resto è la controparte speculare di coppia.
Meno convincente è l’identificazione del Logos con il seminatore e ancora più forzata sembra la lettura della bura e del giogo che egli tiene in mano con il caduceo, anche se, in tale impostazione interpretativa, l’unica divinità egizia che può impersonare la terza Persona della triade è Thoth- Ermes, considerato l’inventore di tutte le cose e il regolatore delle piene del Nilo.
Nulla da aggiungere a quanto si è già detto circa le figure volanti, se non che Dwyer relaziona l’Aria ed il Fuoco con i Megaloi Theoi di Samotracia o Dioscuri nella loro forma ellenistica; lo stesso è per le Horai (l’Acqua e la Terra) associate a Satis, legata alle inondazioni del Nilo e per questo simboleggiante l’Acqua, e a sua sorella Anuket, ipostasi della fertilità (la Terra), ambedue mogli del dio Khnum nella Triade del santuario nilotico di Elefantina.
Sempre restando nella correlazione con il Poimandres, Dwyer fa notare che, sotto questa prima allegoria, tutta la scena si presta ad ulteriori interpretazioni collegate alla creazione della Mente demiurgica (Nous demiourgos), dei Pianeti (i sette governatori), dell’Ottavo Cielo (le stelle fisse), dell’uomo archetipico (Anthropos) ed infine con la sezione escatologica che conclude il Dialogo.
Il primo problema che si pone, per continuare nell’abbinamento iconico è la bisessualità del Nous e delle sue ipostasi, chiaramente dichiarata nell’opera ma non altrettanto chiaramente rappresentata nella tazza, difficoltà che l’Autore risolve, obiettando che la doppia identità sessuale di questi dei era per un alessandrino dell’età tolemaica un concetto talmente scontato da non dover essere sottolineato visivamente.
Altra cosa è l’associazione delle sette figure ai Pianeti, per la quale il nostro Autore, avvertendo che si esprime a livello di ipotesi, propone il seguente schema:
1) il Nous Nilo Osiride Serapide è Saturno,
2) il Logos Horus Toth Agricoltore è il Sole,
3) la Natura umida Iside Euthenia è la Luna,
4) il Fuoco genio con il mantello svolazzante è Giove,
5) l’Aria genio con la bucina è Marte,
6) l’Acqua Ninfa con la patera è Venere,
7) la Terra Ninfa accanto alle spighe è Mercurio.
Secondo questa disposizione Saturno, Sole e Luna corrispondono alla Triade principale. Ad essi si relazionano le due coppie secondarie e precisamente Giove e Marte al Sole; Venere e Mercurio alla Luna, ricomponendo la bisessualità iniziale con la presenza in ogni coppia, intesa come entità duale, di un maschio e di una femmina.
Riguardo il domicilio dei pianeti, ampliando la teoria di Merkelbach, ritiene che la scena rappresenti una mappa stellare che l’Artista ha disegnato tenendo conto della concavità della tazza e iniziando l’allegoria con Orione che annuncia la resurrezione di Osiride.
Interpretando l’oggetto che la figura dell’Agricoltore tiene in mano come uno scettro o “bastone dell’araldo” lo identifica con la costellazione del Gran Cacciatore, e gli correla intorno Iside Euthenia, come stella di Sirio-Sothis, la Sfinge che rappresenta il Leone e la divinità barbuta che, con la sua possanza fisica, allude a quella del Toro. I due giovani volanti sono naturalmente i Gemelli e le due donne a destra le Iadi e le Pleiadi, forse le sette stelle più esoteriche e brillano nel cielo.
L’esegesi continua con la corrispondenza dei sette Pianeti con le Costellazioni e con i Decani, che non riportiamo per brevità, invitando il lettore alla lettura diretta, per poi concludersi con l’analisi del contesto e della datazione in cui la tazza sarebbe stata eseguita.
Giustamente Dwyer fa notare che benché si tratti di un oggetto che per la sua unicità sfugge alle definizioni stilistiche, tuttavia non è difficile considerarlo il prodotto di una stagione culturale che, in linea con la politica ellenizzante attuata dalla dinastia tolemaica, inquadra l’indagine di fenomeni naturali come l’inondazione del Nilo e il movimento degli astri, all’interno della speculazione filosofica e della ricerca scientifica che trovano il centro aggregante nella Biblioteca di Alessandria e il loro apice temporale nel primo secolo a.C.
Ribadita che la tazza è opera di un artista pienamente inserito in questa temperie, e che essa è anche «an illustration of an important philosophic tex of the Corpus Hermeticum» ne colloca l’esecuzione in un periodo che va da «much before 100 B.C. (…) after 31, B. C.», esponendo in tal modo una relazione storica, cronologica e letteraria insostenibile, poiché tutta la letteratura corrente è d’accordo nel datare la composizione degli scritti giunti fino a noi con il nome di Poimandres e Corpus hermenticum, non prima del II – III secolo d.C.
Pur considerando che opere di vario argomento, fiorite intorno a conventicole e centri religiosi che coniugavano il pensiero misteriosofico egizio con la filosofia greca, avevano cominciato a a diffondersi dall’inizio della dinastia tolemaica (III secolo a. C), tuttavia di una letteratura specifica, attribuita a Ermete, mitico inventore della scrittura, è lecito parlare solo dopo il III secolo della nostra era.
Il Corpus Hermeticum e il Poimandres, suo dialogo iniziale in particolare,infatti sono se non la mera raccolta, almeno la sintesi di scritti diversi per tema, originalità e datazione, tutti però espressione sincretica di tradizioni più antiche che vanno dall’Orfismo al Pitagorismo, dai culti misterici al pensiero platonico, dallo gnosticismo alla religione giudaico-cristiana.
Se Eugene J. Dwyer, dopo aver ribadito che la datazione della tazza non può andare oltre il 31 a.C., avesse affermato che l’allegoria raffiguratavi, frutto di un pensiero complesso che da tempo era il segno distintivo della cultura alessandrina, per uno di quei misteriosi disegni che qualche volta superano le cronologie temporali, prodigiosamente anticipa ed illustra la filosofia ermetica del Poimandres, in molti l’avremmo seguito in questa affermazione visionaria, e sull’assioma delle formazioni culturali esposto da Gilbert Durand avremmo, molto più di quanto non l’abbiamo fatto, il meraviglioso mundus imaginalis che ha saputo leggere nella Tazza Farnese.
Ma non lo ha detto e non lo ha scritto.

Conclusioni
Sulla Tazza Farnese, preziosa coppa delle libagioni utilizzata nelle cerimonie di uno o più riti iniziatici, in gran parte collegati alla tradizione egizia, si è scritto molto e molto ancora, probabilmente, si continuerà a scrivere, senza tuttavia scalfire il mistero che l’avvolge, accresciuto vieppiù dagli arcana fatorum che l’hanno posta a Napoli, la città più esotericamente isica che esista.
Che sia appartenuta a Cleopatra VII o che Ottaviano l’abbia mostrata al popolo romano dagli spalti del Palatino, libando in onore della Pax augustea, mentre Orazio, coronato di lauro, recitava il Carmen seculare; che Federico II, come farà secoli dopo, con uguale attitudine imperiale, Margarita d’Austria, ne abbia apprezzato i poteri sovrannaturali; che Lorenzo de’ Medici infine l’abbia assunta a pulcherrimo esempio del Nuovo Umanesimo, poco importa e ogni accezione resta sempre liminale rispetto ad una storia universale che coinvolge chiunque abbia la fortuna di posarvi lo sguardo.
Di fronte all’emozione che il suo fascino trasmette, svanisce la trama delle teorie che studiosi illustri hanno elaborato per interpretarne la scena scolpita nella cavità interna.
Ognuno vi legge la narrazione della propria vincenda esistenziale. Ed ad ugnuno essa consegna, sulle ali della sua eterna bellezza, l’illusione dell’immortalità che supera la finezza del tempo umano.