L’EGITTO PRIMA DELL’EGITTO: 1° parte

Antoine Jean Gros (16 marzo 1771 – 25 giugno 1835): “La battaglia delle piramidi” (21 Luglio 1798).
Antoine Jean Gros (16 marzo 1771 – 25 giugno 1835): “La battaglia delle piramidi” (21 Luglio 1798).

“Il vero mistero del mondo è il visibile, non l’invisibile.”

(Oscar Wilde)

Non ci sono più dubbi ormai che in un tempo lontano, forse più di 10.000 anni or sono, prosperassero su questo pianeta popolazioni che avevano raggiunto un discreto grado di civilizzazione e capacità tecnologica; poi come ci raccontano molti miti (la Bibbia, ad esempio, con il “diluvio universale”), una devastante calamità naturale le cancellò inesorabilmente dalla storia degli uomini.

Dominique Vivant Denon (4 gennaio 1747 – 27 aprile 1825): Prima edizione “Voyage dans la Basse et la Haute Egypte” (Parigi, 1802, Imprimerie P. Didot L'Aîné).
Dominique Vivant Denon (4 gennaio 1747 – 27 aprile 1825):
Prima edizione “Voyage dans la Basse et la Haute Egypte”
(Parigi, 1802, Imprimerie P. Didot L’Aîné).

Moltissimi studiosi hanno cercato (e ancora oggi stanno cercando) testimonianze di fatti concreti di quell’oscuro e forse troppo lontano periodo storico, non molto è stato trovato, soltanto mute pietre misteriose, insediamenti enigmatici (eretti in un tempo all’apparenza impossibile) e racconti di seconda o terza mano catalogati come “miti”, opere letterarie di pura fantasia che ciononostante non possiamo accantonare con troppa superficialità. E non dobbiamo soprattutto perché nei meandri più profondi della nostra memoria ancestrale vorremmo ardentemente che i miti, per noi uomini di oggi così romanticamente affascinanti, ci forniscano prove tangibili della loro autenticità, ma non lo fanno forse semplicemente perché hanno perso con il trascorrere del tempo e con il susseguirsi di trasmissioni orali il significato delle origini. Tuttavia pur se privi all’apparenza di contenuti reali e di riscontri storici, i miti devono, per definizione, trarre le loro trame da eventi perduti ormai condannati all’oblio. Anche l’Antico Egitto, nonostante l’enorme quanto imponente quantità di granitiche testimonianze architettoniche, ha corso il rischio, non di scomparire dalla storia, ma di occultarsi nell’impenetrabile nebbia della non conoscenza, di trasformarsi in una imponente quinta teatrale in attesa di una commedia che non sarebbe mai stata scritta; tuttavia nulla è immobile per sempre e per una inaspettata serie di fortunati (ma tragici) eventi, dopo oltre duemila anni di oblio, in un momento inaspettato della storia degli uomini finalmente la terra dei Faraoni si rivelò al mondo e dall’evanescenza dei miti si trasformò in realtà.

Dominique Vivant Denon: “Voyage dans la Basse et la Haute Egypte” Esterno e interno del tempio di Apollinopolis a Edfu.
Dominique Vivant Denon:
“Voyage dans la Basse et la Haute Egypte” Esterno e interno del tempio di Apollinopolis a Edfu.

Parte 1 – La riscoperta

Gli Egizi, che forse dovremo chiamare diversamente, indicavano la loro terra con vari nomi, il più comune era Kemi o Kemet che significa “Terra Nera”, dovremmo quindi per correttezza chiamarli Kemiti. Però, pur essendo Kemi il nome più diffuso, nell’antichità (non se ne conosce il motivo) fu scelto un altro nome derivato da Het-ka-Ptah, che significa “Casa dello spirito di Ptah”, che in babilonese divenne “Hikuptah” il quale, tradotto in greco, diventava “Aiguptos” e quindi Egitto.

Il 17 Maggio del 1798 Napoleone Bonaparte al comando dei 38.000 soldati della neonata Armée d’Orient salparono da Tolone alla volta dell’Egitto, con l’ambizioso progetto di anticipare i contendenti inglesi nella conquista di un regno socialmente traballante ed economicamente prostrato ma strategicamente importante. La flotta era composta da 280 navi mercantili e 55 navi da guerra con a bordo ben 55.000 persone, in massima parte soldati e funzionari governativi, ma anche 167 “asini” (così erano definiti dal personale militare questi strani civili che ben poco avevano a che fare con una complessa operazione militare di conquista), ovvero: cartografi, ingegneri, disegnatori, botanici, astronomi, geologi e “antiquari”, strane figure che mischiavano le ricerche storiche al commercio di antichi manufatti, i precursori degli attuali archeologi. La Campagna d’Egitto si risolse in un totale fallimento dal punto di vista militare, ma un grande successo per la conoscenza del passato dell’uomo in quanto riportò all’attenzione del mondo una grandissima civiltà dimenticata, letteralmente sepolta dalle sabbie del deserto.

Nel XVIII secolo la Civiltà Egizia era pressoché sconosciuta, le grandi piramidi, parzialmente interrate, erano 30 metri più basse di come le possiamo vedere oggi, della sfinge spuntava soltanto la testa che gli artiglieri Mamelucchi usavano come bersaglio nelle esercitazioni. Soltanto i beduini conoscevano l’ubicazione dei templi di Luxor e Karnak; gli ultimi discendenti (etnicamente parlando) del popolo che aveva edificato le più colossali costruzioni realizzate dall’uomo erano ormai estinti da secoli. Tutto ciò che riguardava l’antico Egitto era un mistero impenetrabile, qualche accenno da Strabone (60/63 a.C. – 21/23 d.C. che cita l’Egitto nell’opera “Geographica” volume XVII), sa Diodoro Siculo (90 a.C. – 27/30 a.C. che si recò in Egitto tra il 60 e il 56 a.C.) ed Erodoto (484 a.C. – data della morte sconosciuta) che pur avendolo visitato trovò ben poche risposte alle sue domande; i dubbi sulle certezze di quanto riportato sull’Egitto nell’opera “Storie” (composta da 9 volumi) appare evidente nel preambolo introduttivo: “Presti fede ai racconti degli Egiziani chi ritiene credibili queste notizie. Io mi son proposto, per tutta la mia storia, di scrivere per sentito dire tutto ciò che si dice”.

“Stele di Rosetta” frammento di una stele in granodiorite grigia e rosa, recante un decreto sacerdotale riguardante Tolomeo V suddiviso in tre blocchi di testo: geroglifico (14 righe), demotico (32 righe) e greco (54 righe), attualmente custodito presso il British Museum a Londra.
“Stele di Rosetta” frammento di una stele in granodiorite grigia e rosa, recante un decreto sacerdotale riguardante Tolomeo V suddiviso in tre blocchi di testo: geroglifico (14 righe), demotico (32 righe) e greco (54 righe), attualmente custodito presso il British Museum a Londra.

Nel 400 a.C. le antiche dinastie erano già state dimenticate da oltre 1000 anni, quanto è riportato nelle loro cronache è in massima parte frutto di fantasia; Giuseppe Flavio (37/100 d.C.), ad esempio (anche se non più attendibile di Strabone e Diodoro) bacchetta Erodoto incolpandolo di aver dato libero sfogo alla propria immaginazione e di aver incautamente raccolto testimonianze da personaggi assolutamente privi di ogni considerazione (è ormai provato che entrambi sugli Egizi ne sapevano molto, molto meno, di quanto ne sappiamo noi oggi).

A parte queste sporadiche e decisamente scarne citazioni, sull’Egitto faraonico era calato un silenzio proverbialmente “di tomba”, nella terra dei Kemiti tra le antiche vestigia di un passato glorioso, inarrivabile per molte società successive, si aggiravano solamente furtivi saccheggiatori che nulla sapevano o volevano sapere degli antichi fasti del popolo che abitava quelle contrade prima del loro arrivo, di cui ogni ricordo era andato perduto. Tuttavia le brame espansionistiche sulla sponda mediterranea del continente africano del Bonaparte risvegliarono forse non intenzionalmente grande interesse in tutta Europa per questa affascinante civiltà dimenticata, certamente “asini” e “antiquari” si impegnarono assiduamente per riportare alla luce, quanto più era possibile, ma il vero cantore, colui che documentò visivamente agli occhi del mondo cosa celavano le sabbie del deserto fu il barone Dominique Vivant Denon (1747/1825), pittore, incisore, scrittore ed editore che, aggregatosi all’Armée d’Orient immortalò in splendidi disegni a matita una impressionante quantità di reperti e monumenti. Ritornato a Parigi nel 1801 a causa il fallimento della spedizione militare francese, nel 1802 diede alla stampa una prima importantissima opera “Voyage dans le Basse e le Haute Aegypte” (composta da due volumi di grande formato contenenti le riproduzioni di 141 tavole a matita da lui realizzate); seguita nel periodo 1809/1813 dalla più monumentale raccolta dedicata all’antico Egitto mai realizzata “Description de l’Egypte” composta da 9 volumi di testi e 14 volumi di illustrazioni corredate da esaustive didascalie. Nonostante il costo proibitivo, il successo dell’opera si rivelò clamoroso, influenzò talmente la società francese da scatenare una vera e propria moda: lo stile “Retour d’Egypte” che si riverbererà nella letteratura, nella moda e in tutte le discipline artistiche e filosofico-esoteriche coinvolgendo trasversalmente tutti i ceti sociali ed espandendosi via via anche in Inghilterra e Germania.

La via dell’Egitto era ormai aperta, alla moda, alla fascinazione, al mistero, alla magia, ne conseguì anche altro.

I primi scavi, effettuati con un minimo di metodo, li realizzò l’italiano Giovanni Battista Belzoni, non un antiquario, non uno studioso, ma un avventuriero finanziato dal console britannico al Cairo, tale Henry Salt, per il quale operò un vero e proprio saccheggio, senza neppure prendere nota della provenienza dei reperti; gli va comunque riconosciuto il merito di aver scoperto le prime tombe nella Valle dei Re e di aver dissotterrato il tempio di Abu-Simbel quasi completamente ricoperto di sabbia.

Kingston Lacy: residenza di lord William John Bankes: “Obelisco di Philae”.
Kingston Lacy:
residenza di lord William John Bankes:
“Obelisco di Philae”.

A Belzoni seguirono gli scavi del Conservatore del Louvre: Auguste Mariette, che operò in Egitto dal 1850, inizialmente con i metodi invasivi del Belzoni, arricchendo la collezione del Louvre, ma in seguito con altro spirito e altri fini. Tutto quello che Mariette trovò dopo il 1858 rimase in Egitto formando il nucleo iniziale degli importanti reperti che oggi possiamo ammirare al Museo Egizio del Cairo. “Pietre, cocci e stracci”, come ebbe a dire l’egittologo Alan Gardiner, a questo si limitava la conoscenza degli antichi Egizi, a fronte di una esuberante presenza di imponenti strutture architettoniche, di chilometri quadrati di incisioni e centinaia di rotoli di papiro, così tanto ma in realtà così poco, perché inesorabilmente muto, a causa dell’impossibilità di comprendere quello che l’esorbitante quantità di scritture avrebbero potuto raccontare.

Scritture, al plurale, non una, addirittura tre: quella geroglifica composta da soli ideogrammi, quella ieratica (un geroglifico corsivo) per nulla meno complessa della geroglifica, e quella demotica (una successiva semplificazione della ieratica erroneamente definita dai Greci “popolare”). I tentativi di traduzione si rivelarono da subito insormontabili, ancora oggi non siamo in grado di scandire con la giusta pronuncia l’antica lingua degli Egizi, la scrittura egizia è priva di vocali, o meglio non le scrive, anche se oggigiorno sappiamo che i suoni relativi alle nostre vocali A, I, O, U, sono semi-consonanti.

Ad esempio, non abbiamo nessun Egizio che ci possa dire come pronunciare correttamente il nome, all’apparenza semplice, di Nefertiti, che in realtà e scritto in modo ben diverso: NFRTIITI, provate a pronunciare questo nome infondendo alle “I” una fonetica consonantica, quindi aspra; o ancor peggio la traslitterazione dal macedone del nome di Alessandro III°: ALKSNDRS, sicuramente non sapreste come muovere la lingua, non capireste quando aspirare o espirare, qualunque cosa riusciste a fare non sarebbe comunque quella corretta.

Cartiglio di Alessandro III di Macedonia.
Cartiglio di Alessandro III di Macedonia.

Alcuni egittologi dei nostri giorni sostengono che anche se non si fosse trovata la celebre stele di Rosetta si sarebbe comunque riusciti, prima o poi, a tradurre le tre impenetrabili scritture. Personalmente non ne sono molto convinto e non lo sono neanche molti egittologi: senza la stele di Rosetta e uno dei due piccoli obelischi in granito rosa (alti solo 9 metri) rinvenuti sull’isola di File (visibile ancora oggi all’ingresso di Kingston Lacy, antica residenza di lord William John Bankes nel Dorsetshire) difficilmente il mistero delle lingue Egizie si sarebbe risolto. Jean-Francois Champollion senza la comparazione del cartiglio di Ptolemaios V° Epifane (presente sulla stele di Rosetta, con relative traduzioni del geroglifico in demotico e greco) e i cartigli di un altro Tolomeo: Ptolemaios VIII° Evergete II° e di Cleopatra III° presenti sull’obelisco, con relative traduzioni in lingua greca, non sarebbe mai riuscito neppure ad immaginare un punto di partenza plausibile. Invece osservando i cartigli e le relative traduzioni in greco, Champollion si rese conto che i geroglifici non erano in realtà ideogrammi ma erano scrittura, lettere che indicavano anche la pronuncia nella quale dovevano essere articolate; tutti e tre i cartigli infatti presentavano 5 segni monoconsonantici o meglio, alfabetici, comuni: le lettere P, T, O, L, A. fu quindi per pura fortuna che si iniziò a comprendere la più antica grafia ideata dall’uomo, risalente al V° o IV° millennio a.C.

La scrittura geroglifica ha, rispetto a tutte le altre scritture, la genialità di utilizzare immagini che indicano senza alcuna arbitraria interpretazione, le qualità e le funzioni di ciascun segno e la rispettiva pronuncia; non è possibile avvicinarla alle altre scritture proprio per le peculiarità della civiltà che l’ha espressa, che non è né occidentale né orientale ma neppure mediterranea.
Tuttavia la lingua non era il solo problema che assillava gli egittologi, la datazione storiografica degli avvenimenti e dei vari attori della storia dall’Antico Egitto appariva inaccettabile, troppo lunga, si spingeva troppo indietro anche oltre gli albori del neolitico; inoltre non era in uso un calendario cronologico, non esisteva un punto “zero” dal quale partire, un calendario c’era ma non era progressivo, serviva unicamente per cadenzare l’anno solare (non è quindi di alcuna utilità né per la datazione storiografica che per qualunque altro tipo di datazione).
Infatti non troveremo mai una datazione del tipo: nel giorno 20 del mese di Athyr, della stagione di Akhet, dell’anno? 3145? 2796, 1789? Qualunque anno andrebbe bene, per noi, ma non avrebbe nulla a che fare con la storia dell’antico Egitto.

Troveremmo invece sempre una data di questo tipo: nel 20° giorno, del terzo mese della prima stagione, anno XII° di Sesostri I°, che non ci sarebbe di alcuna utilità perché non ci indicherebbe in quale periodo visse il Faraone, perché per ogni Faraone, gli scriba partivano dall’anno “uno del regno di…” e calcolavano gli anni in base alla vita del monarca, per poi ricominciare da capo con il Faraone successivo, non era quindi possibile per gli egittologi stabilire in quale periodo storico un monarca avesse veramente vissuto.

A chiarire, ma non troppo, la questione, ci pensò Manethon (Manetone) un sacerdote e scriba vissuto alla corte di Tolomeo II° Filadelfo, autore della “Aegyptiaca” una storia in due tomi dell’Egitto faraonico, contenente una cronologia abbastanza dettagliata delle 30 dinastie che si erano succedute dall’unificazione in un unico regno dell’Alto e del Basso Egitto (avvenuta attorno al 3200 a.C.), sino alla morte di Nectanebo II° l’ultimo dei tre Re di Sebennito (360-343 a.C.). Purtroppo i due volumi dell’Aegyptiaca che contenevano la lista cronologica dei Re dell’Antico Egitto sono andati perduti, ma un compendio (Epitome) di contenuto storiografico del cronista bizantino Georgios Synkellos (Giorgio Sincello, segretario del patriarca di Costantinopoli Tarasio) riporta una lista dettagliata (attribuita a Manetone) dei sovrani egizi con indicati i relativi anni di regno, giunta sino a noi grazie alla stampa dell’intero volume nel 1652 ad opera del bizantinista francese Jacques Goar. La cronologia dinastica di Manethon come abbiamo appreso indica anche gli anni di regno di molti Faraoni, sommando gli anni di regno di tutti i Faraoni era quindi possibile risalire al primo anno di regno del primo Faraone, della prima dinastia; tutto bene direte voi, ma non proprio, il calcolo lasciò gli egittologi a bocca aperta: la somma (calcolando anche le ulteriori tre dinastie succedutesi a Nectanebo II°, la II° dinastia Persiana, quella Macedone e quella Tolemaica che termina nel 30 a.C.), stabilisce che Menes, il primo Faraone d’Egitto era salito al trono nel 5867 a.C. in pieno Neolitico.

Prendendo per buone le annotazioni di Manetone la storia sarebbe stata tutta da riscrivere, e quindi: le piramidi potrebbero risultare molto più antiche di quanto si pensava, l’esodo degli ebrei non si sarebbe mai verificato, tutte le strutture megalitiche verrebbero retrodatate almeno di 2000 anni. Subito i cattedratici corsero ai ripari, cercando di far tornare i conti con un’intuizione ancor più sconvolgente della somma indicata da Manetone: ipotizzarono che per molti anni alcune dinastie governarono l’Egitto in contemporanea, una nell’Alto e l’altra nel Basso Egitto, arrivando addirittura a sostenere che in alcuni periodi ben tre Faraoni si contendessero simultaneamente il territorio, uno a Sud, uno a Nord e un terzo in una ipotetica “terra di mezzo” della quale non sussistono testimonianze (oltre tutto non vi sono tracce iconografiche di una terza corona, a meno che non si trattasse del cappello a punta di Gandalf). Ma anche se per brevi periodi tali eventi si fossero verificati, considerando che non furono molti i Faraoni di così scarso potere da causare una reale scissione in due regni (in alcuni rari casi avvenuta), il ricalcolo difficilmente avrebbero portato ad una somma di anni così consistente da stravolgere le datazioni indicate da Manetone. Sollecitati non tanto dalle autorità religiose delle tre religioni del Libro (che con quelle datazioni vedevano andare in fumo almeno tre quarti del loro manuale di riferimento: la Bibbia, che fissa, ad esempio, la creazione della Terra al 3760 a.C.) ma soprattutto da eminenti uomini di fede (per lo più cattedratici e politici) affetti da estrema creduloneria, attuarono un ricalcolo funambolico degli anni di vita dei Faraoni e della durata delle dinastie, indicati da Manetone, applicandovi un taglio di quasi 2000 anni.

Tuttavia, nonostante i tagli apportati alla durata del periodo dinastico, non possiamo dire che la cronologia dello scriba di Sebennito abbia cessato di creare apprensione nel mondo dell’egittologia e non solo (soprattutto in quei creduloni che non vengono mai sfiorati dal dubbio), l’elenco comprende infatti anche un periodo Predinastico che si spinge nel passato a epoche così remote da lasciare chiunque a bocca aperta; ma sono altre storie che tratteremo nei prossimi capitoli.

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Nefertum

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