L’EGITTO PRIMA DELL’EGITTO: 2° parte

Particolare del “Libro per uscire al giorno” del sacerdote di Horus, Imuthes, risalente al periodo Tolemaico tra il 330 e il 200 a.C. (lungo 192 centimetri e alto 35 centimetri) donato al Metropolitan Museum nel 1935 da Edward S. Harkness.
Particolare del “Libro per uscire al giorno” del sacerdote di Horus, Imuthes, risalente al periodo Tolemaico tra il 330 e il 200 a.C. (lungo 192 centimetri e alto 35 centimetri) donato al Metropolitan Museum nel 1935 da Edward S. Harkness.

Parte 2 – UNA CIVILTA’ TRA CIELO E TERRA

Prima di procedere oltre, e affrontare il roboante periodo Predinastico è necessario ampliare alcune conoscenze generali (che ci torneranno molto utili per affrontare correttamente i capitoli successivi) iniziando a chiarire il reale significato di due parole fondamentali per una conoscenza corretta di questa antichissima civiltà.

La prima è il termine greco usato da Manetone per suddividere i vari periodi di regno: lo scriba definisce questi periodi con il termine greco “dynasteia” (dal quale deriva il moderno “dinastia” che indica una procedura di successione in linea di sangue), parola che aveva invece un significato alquanto diverso da quello attuale: letteralmente “potere governativo” (non ereditario) che era in terra d’Egitto presieduto e diretto da un Re/Sacerdote assoluto.

La seconda riguarda il nome con il quale oggi si indica il Re dell’Alto e del Basso Egitto, il Faraone, che viveva in un immenso palazzo che ospitava anche gli uffici dei funzionari del regno (Visir), amministrato da un impeccabile ed efficientissimo apparato governativo.

Questo sontuoso palazzo si chiamava Par-o che significa: “la Duplice grande Casa” (detta anche “Casa dalle due porte” e “Casa dei due granai”), luogo dove la mente e il braccio dell’autorità governativa convivevano e collaboravano; fu la trascrizione ebraica presente nella Bibbia: “Fara-o” a originare il termine oggi in uso: Faraone, parola mai utilizzata in terra d’Egitto dove abitualmente ci si riferiva al Re in altri modi: “il Signore” oppure semplicemente “Egli”, seguito solitamente da un augurio di lunga vita.

Particolare del “Libro per uscire al giorno” dello Scriba Reale Hunefer, Signora di Casa e Cantatrice di Amon. risalente alla XIX° dinastia (lungo 90,50 centimetri e alto 45 centimetri) splendido esemplare di papiro dipinto, raffigurante il “giudizio di Unefer” o Psicostasia. Acquisito dal British Museum tramite l’antiquario H. Boone nel 1852.
Particolare del “Libro per uscire al giorno” dello Scriba Reale Hunefer, Signora di Casa e Cantatrice di Amon. risalente alla XIX° dinastia (lungo 90,50 centimetri e alto 45 centimetri) splendido esemplare di papiro dipinto, raffigurante il “giudizio di Unefer” o Psicostasia. Acquisito dal British Museum tramite l’antiquario H. Boone nel 1852.

Questa, come altre, interpretazioni anomale o forzate della lingua egizia sono purtroppo la norma, gli antichi Egizi non hanno mai chiamato il grande fiume né Nilo né fiume, ma Hapi che indicava specificatamente quel fiume e contemporaneamente la divinità che lo animava (il greco Neilos e il latino Nilus nessuna sa da dove sono saltati fuori), le piramidi “piramidi” ma “Mer” o gli obelischi “obelischi” ma “Tekhenu”, quasi tutti i nomi che utilizziamo abitualmente sono raffazzonate traduzioni in greco, latino, arabo, turco e, in molti casi, inventati all’occorrenza.

Un esempio emblematico riguarda il celebre “Libro dei Morti” (una raccolta di formule e prescrizioni utili al defunto per passare a una nuova condizione di vita dopo la morte) che in realtà era intitolato “Libro per uscire (o riemergere) al giorno”; il termine oggi di uso comune deriva dall’arabo “Kitàb el-Myytun” (“libro del morto“) con il quale i razziatori di tombe indicavano qualunque tipo di papiro trovato nelle tombe (occorre precisare che nelle dotazioni presenti in ogni sepoltura di personalità di rilievo era d’obbligo includervi uno di questi testi ritenuti indispensabili per il defunto).

Al contrario di quanto si possa pensare il Faraone non rappresentava una mera esibizione di fasto e di potere, amministrava veramente e inflessibilmente sia il regno che il culto, per questi compiti era preparato e istruito sin dalla nascita. Le sue apparizioni pubbliche non erano frequenti, non avvenivano mai casualmente, quando lasciava il suo palazzo, letteralmente, come il Sole: “sorgeva”; quando le contingenze imponevano la sua presenza, come gli dei, esibiva l’attributo necessario ad espletare il compito richiesto ed era adeguatamente abbigliato e dotato dei simboli necessari: tre diverse corone amministrative, altre corone per le funzioni religiose, un elmo per la guerra, svariati copricapi di stoffa dotati di specifici diademi, svariati tipi di scettri e bastoni lunghi e corti, flagelli e mazze cerimoniali. Alla sua morte, quale parte di un ciclo temporale minore, come il Dio Sole “tramontava” per essere sostituito, all’alba del nuovo giorno da un nuovo Re-Dio che, in un giovane corpo, avrebbe esibito altri attributi, necessari per consolidare la “maet” (il benessere del regno).

Tuttavia, il Faraone pur se assimilabile a un semi-dio, non era inamovibile, non sono pochi i casi nei quali, rivelatosi incapace di consolidare la “maet”, veniva, senza troppi riguardi, deposto e dimenticato, dall’oggi al domani “dalle stelle alle stalle”, in nessun’altra civiltà l’onere del servizio è mai stato così strettamente vincolato al merito e ai risultati come lo era nell’Antico Egitto.

Statua in granito di Horus (Tempio di Edfu situato nei pressi di Assuan, Alto Egitto), sotto forma di falco il cui occhio destro era il sole o la stella del mattino, che rappresentava il potere e la quintessenza, e l’occhio sinistro era la luna o la stella della sera, che rappresentava la guarigione. Ha sul capo la corona “Pschent” quale Re dell’Alto e Basso Egitto.
Statua in granito di Horus (Tempio di Edfu situato nei pressi di Assuan, Alto Egitto), sotto forma di falco il cui occhio destro era il sole o la stella del mattino, che rappresentava il potere e la quintessenza, e l’occhio sinistro era la luna o la stella della sera, che rappresentava la guarigione. Ha sul capo la corona “Pschent” quale Re dell’Alto e Basso Egitto.

Due frasi, la prima del Visir Rekmira che sintetizza la preparazione e le capacità del faraone Thutmose III per adempiere nel rispetto della “maet” al proprio compito con rigorosa umiltà, e una dichiarazione dello stesso Thutmose in un dialogo con il Visir, non lasciano spazio ad alcun dubbio o fraintendimento: “Sua maestà era sempre informato di tutto, non v’era nulla in cui fosse ignorante: era Toth e non v’era argomento che Egli non sapesse trattare”. “La mia Maestà non ha mai proferito lodi esagerate su ciò che ha compiuto dicendo “io ho fatto alcunché” se in realtà non l’ho fatto; nessuna verità da me asserita può essere smentita”.
Il Faraone, in quanto testimone vivente di una affollatissima progenie di Dei (tra importanti, famosi e temporanei il pantheon egizio conta almeno 3000 manifestazioni divine differenti), era il conservatore della regalità in terra, considerato a tutti gli effetti un re-dio, un’emanazione diretta di Horo “il Vecchio” (preesistente al dio solare Ra, in seguito le due divinità furono unite in un’unica entità: il Ra-Harakhti cioè “Horo dei due Orizzonti”) e, in quanto tale, doveva giorno dopo giorno, consolidare la “maet”, dimostrando costantemente la propria capacità di amministrare il paese, senza favoritismi con correttezza e inflessibilità, dispensando con ordine ed equità: giustizia e benessere. Tuttavia, come gli Dei che rappresentava, era anch’esso sottoposto ad un’entità primigenia universale, antecedente la creazione, forse, per pudore o per rispetto, volutamente mantenuta nell’ombra.

Nell’Inno di Amon risalente alla XVIII Dinastia (Nuovo Regno – 1575/1087 a.C.) l’entità, o meglio, ciò che noi uomini di questo secolo possiamo riconoscere come un dio, è indicata come “Ntr” che, per comodità linguistica, gli egittologi hanno trasformato in “Nether” la cui pronuncia ipotizzata, in lingua egizia, è “nàtschir”), di essa si dice che “è in cielo con il compito di illuminare il mondo”.

Possiamo ritenerlo un chiaro riferimento al Sole? Non proprio, perché l’astro è materia che, in quanto tale, ne diventa realtà soggettiva e quindi testimonianza tangibile, invece il suo corpo, ovvero la sua reale natura (a noi, come agli Egizi, resta sconosciuta), è occultata nell’oltretomba, non però un “aldilà” come noi oggi lo figuriamo, dopo almeno due millenni di condizionamenti operati da una costrittiva concezione religiosa giudaico-cristiana (significative le interpretazioni di Albrecht Dürer, Gustave Doré e Sandro Botticelli), ma bensì una dimensione sensoriale, non percepibile dall’uomo, ubicata in un tempo ed in uno spazio del tutto sconosciuti.

Ma se il Dio appare così evanescente, irraggiungibile persino con l’immaginazione, che cosa succede sulla Terra, tra gli uomini? Operano Dei minori in sua vece? Oppure sulla Terra non agisce nessun Dio, ma neppure qualcuno che intervenga su sua richiesta?

Noi, oggi, non abbiamo certezze in merito, come probabilmente non l’avevano neppure gli antichi Egizi, tuttavia da persona sagge ed avvedute quali erano, avevano, pur con qualche contraddizione, eretto una variopinta costruzione religiosa in divenire, capace di adattarsi ad ogni necessità e contingenza per rassicurare e al contempo governare i credenti.

Sappiamo con certezza che gli antichi Egizi avevano realizzato statue o particolari manufatti raffiguranti il vero corpo di “Ntr”, o quello che immaginavano fosse, ma questo sacro simulacro non veniva mai esposto al pubblico; conservato in uno scrigno al buio, nel luogo più sacro del tempio, era accessibile solo al sacerdote di turno che, quotidianamente, ogni mattina all’alba, dopo aver aperto lo scrigno, rivolto all’icona dell’eterno increato, officiava il rituale di ringraziamento. In occasione delle principali festività il simulacro (del quale non sono giunte sino a noi reperti neppure parziali), sfilava in processione tra i fedeli, all’esterno del tempio, portato sulle spalle dai sacerdoti, sempre rinchiuso in un’edicola di legno in modo da non violarne l’invisibilità. Tuttavia nell’antico Egitto dilagavano immagini attraverso le quali l’immateriale “Ntr” palesava la propria rassicurante presenza, ogni immagine di coccodrillo, ibis, toro, serpente, gatto o falco, era un segno evidente della presenza e dell’opera della divinità; non sussistevano confini tra immagine e statua, similitudine e identificazione, il tutto era fuso in un metalinguaggio nel quale le rappresentazioni divine, soprattutto quelle miste (corpo umano e testa animale o viceversa), in quanto ideogrammi, comunicavano con immediatezza e chiarezza ai credenti gli attributi delle varie divinità: un’immagine per ogni attributo, un Dio per ogni circostanza.

Gruppo statuario in scisto grigio del Faraone Menkaura/Micerino (con la corona bianca dell’Alto Egitto), con alla destra la Dea Hathor (che esibisce il cerchio solare tra le corna di vacca) e alla sinistra la personificazione di Kasa (Kynopolis) capitale de XVII “Nomo” dell’Alto Egitto).
Gruppo statuario in scisto grigio del Faraone Menkaura/Micerino (con la corona bianca dell’Alto Egitto), con alla destra la Dea Hathor (che esibisce il cerchio solare tra le corna di vacca) e alla sinistra la personificazione di Kasa (Kynopolis) capitale de XVII “Nomo” dell’Alto Egitto).

Poter immaginare il pensiero religioso di un egizio, di un sumero, ma anche di un indo-ariano, nati 6.000 anni fa, pur se dotati di una superiore capacità di compenetrazione, ci è assolutamente impossibile; analizzandone i miti non possiamo non notare quanto siano lontane dalle attuali le loro concezioni del mondo, della vita e della funzione dell’uomo nella creazione. In alcuni casi, i rispettivi testi di riferimento, realizzati in un passato per noi assai remoto, ci superano, rivelandosi come cronache di un passato-futuro, trasformandosi in spettacolari saghe space-fantasy all’apparenza irreali fantasiose speculazioni da romanzo d’avventura, che però l’evoluzione scientifica operata dall’uomo in questi ultimi secoli rendono sempre più realistiche, addirittura possibili quali avvincenti testimonianze di una decaduta “Età dell’Oro” antidiluviana.

Se osserviamo attentamente le tre religioni più antiche, esse sembrano operare su tre livelli distinti: il Dio (supremo, l’inconoscibile), gli Dei minori (i figli creati o generati dal Dio supremo) e gli uomini-dio (re, raja, faraoni, a loro volta figli o creazioni degli Dei minori); il Netheru egizio, l’Anu sumero e il Brahaman indo-ariano, anche se raffigurati in modi differenti, ricoprono la medesima posizione, sono gli dei primordiali, i creatori increati di quell’immensità che nell’unità racchiude il tutto, di quell’universo che consideravano, non infinito, ma senza fine. Senza questa entità indescrivibile chiamata con molti nomi diversi che dovremmo correttamente definire con il termine quantistico di “Singolarità”, logicamente e scientificamente accettabile (molti grandi scienziati: Planck, Einstein, Poincaré, Heisenberg, Hawking, Capra, presuppongono l’esistenza di un meccanismo, un’armonia, invisibile autorigenerante, immagine per un credente psicologicamente inaccettabile), operante in uno spazio-tempo, una dimensione, all’uomo invisibile e irraggiungibile dove nulla sarebbe percepibile dai nostri sensi; accettandola come realtà agli uomini resterebbe ben poco, soltanto l’irrisovibile mistero della propria funzione, dello scopo e della finalità ultima per dare un senso alla propria presenza nel mondo.

Questa importantissima entità, nonostante sia l’insostituibile punto di partenza delle tre più antiche religioni, non fu mai veramente venerata dai credenti, probabilmente perché ritenuta troppo lontana dalle contingenze e della quotidianità: in Egitto solo un singolo sacerdote ringraziava ogni giorno il creatore, risulta che i Sumeri abbiano eretto un solo tempio alla gloria di Anu nella città di Uruk e anche allo scarsamente venerato Brahma che, operando ad un livello sovrumano, non può prestare ascolto alle preghiere degli uomini, è dedicato il solo tempio di Pushkar.

L’uomo ha però sempre venerato i presunti emissari o le immaginifiche manifestazioni di questa entità (definiti come “coloro che portarono dal cielo la regalità sulla terra”), per un motivo assai semplice, questi visitatori, vigilanti o osservatori, conosciuti come: Elohim, Nefilim (Nephilim), Igigi, Dingir, Ilanu, Anaquim, Malakim o in qualunque altro modo siano stati chiamati, questi Dei non immortali che agivano nel mondo degli uomini ed interagivano con essi generando persino figli e figlie (abbastanza abituale tra le divinità sumere e indo-ariane ma non tra quelle egizie).

A differenza di tutte le altre divinità presenti nelle varie religioni, quelle egizie, forme di ipostasi del Dio primigenio a loro volta sottoposte alla stessa regola (come è evidente nella “Litania del Sole” dove nell’invocazione ci si rivolge al dio Rain tutte le sue forme”), sono soggette all’oblio, muoiono e all’occorrenza rinascono; la diversificazione divina adottata dagli antichi Egizi si fonda sulla consapevolezza che la creazione (ovvero ciò che rende l’intangibile esistente) presuppone un’infinita frammentazione di Dio, ma anche che tutti i frammenti, sono interdipendenti tra loro, pur restando separati finché esistono, solo il ritorno ad uno stato di non-esistenza, o meglio di pura energia, li riporterà ad unirsi al corpo della divinità.

Bassorilievo di uno Zodiaco scolpito sul soffitto della cappella dedicata a Osiride nel Tempio di Hathor a Dendera risalente al 50 a.C. (Museo del Louvre, Parigi)): a sinistra immagine del manufatto originale, a destra ricostruzione della colorazione ormai quasi scomparsa (nel cerchio interno sono riprodotte le costellazioni, che mostrano i segni dello zodiaco; alcuni sono rappresentati nelle forme a noi familiari: Ariete, Toro, Scorpione e Capricorno, sebbene con orientamenti differenti rispetto alle consuetudini dell'antica Grecia e alle successive elaborazioni arabo-occidentali, mentre altri sono mostrati in una forma più egizia: l'Acquario ad esempio è rappresentato nelle sembianze del Dio Hapi con in mano due vasi da cui fuoriesce l’acqua del Nilo).
Bassorilievo di uno Zodiaco scolpito sul soffitto della cappella dedicata a Osiride nel Tempio di Hathor a Dendera risalente al 50 a.C. (Museo del Louvre, Parigi)): a sinistra immagine del manufatto originale, a destra ricostruzione della colorazione ormai quasi scomparsa (nel cerchio interno sono riprodotte le costellazioni, che mostrano i segni dello zodiaco; alcuni sono rappresentati nelle forme a noi familiari: Ariete, Toro, Scorpione e Capricorno, sebbene con orientamenti differenti rispetto alle consuetudini dell’antica Grecia e alle successive elaborazioni arabo-occidentali, mentre altri sono mostrati in una forma più egizia: l’Acquario ad esempio è rappresentato nelle sembianze del Dio Hapi con in mano due vasi da cui fuoriesce l’acqua del Nilo).

Il pantheon egizio, come i templi, mai considerati finiti, è in costante fermento e rinnovamento, le immagini degli Dei che lo componevano comunicavano con immediatezza ai credenti gli attributi delle varie divinità, un’immagine per ogni attributo che al contempo poteva essere condiviso da più divinità; l’intercambiabilità grafica delle immagini e quindi degli attributi, agisce come una formula matematica che, pur variando, modificandone le grandezze, evidenzia in modo chiaro e incontestabile l’attributo, mantenendo però nascosto il reale aspetto del Dio primigenio, sostituito da Dei creati appositamente (generalmente tutti i corpi sono simili, differiscono in qualche caso per gli ornamenti indossati, cambiano le teste che, se addobbate con un differente diadema o copricapo, modificano o estendono un particolare attributo).

Arrivati a questo punto non possiamo non soffermarci un pochino sul geroglifico del “bastone avvolto” utilizzato per indicare il Dio primigenio “Nether”, questo strano manufatto a forma di banderuola, bendato come una mummia, e inchinarci alla limpida logica degli antichi Egizi. Non molto dissimile da quella indo-ariana nella quale il Brahman, il Dio primigenio, è anch’esso invisibile e impercepibile, per un motivo semplicissimo che ritroviamo anche alla base della teoria del Big Bang, in quanto è la “Singolarità” da cui tutto ha avuto origine; la pura energia (ovviamente invisibile in sé stessa della quale l’uomo può percepirne solo le manifestazioni) che con il “grande botto” ha dato origine alla materia, all’universo. I credenti delle “tre religioni del Libro”, indotti da sempre a rifiutare la scienza e la logica, potrebbero scorgere nella “Singolarità” la figura del demiurgo, del creatore (colui che “ex nihilo”, dal nulla ha dato forma alla materia), a loro tanto cara e chiederci, a noi che coltiviamo il dubbio: “Quindi voi non credenti concepite l’esistenza di un’intelligenza universale, di un Dio che sovrintende il tutto?”.

Bene! Occorre una divagazione, dobbiamo lasciare per un attimo l’antico Egitto e affrontare un argomento assai spinoso che fungerà però da trampolino per tuffarci, preparati, nel roboante capitolo finale.
La domanda è a mio parere scorretta, il termine “concepire” ovvero “accogliere nell’intelletto, nella coscienza, quindi intendere e capire” lascia presupporre che l’interrogato possieda gli strumenti per formulare una risposta adeguata. Io mi chiedo: l’uomo (sia quello considerato erudito che quello definito sapiente) ha gli strumenti per poter rispondere a questa domanda?

No! Non li ha. E neppure può averli.

Gli strumenti intellettivi necessari l’uomo li matura attraverso la conoscenza derivata dall’apprendimento e dall’esperienza tratta dalle contingenze; ma questa “intelligenza” è limitata dalle proprie capacità sensoriali e quindi non sempre in grado di attribuire significati pratici o concettuali ai vari vissuti delle esperienze e delle contingenze. L’esperienza umana dell’universo è limitata alla sola vista, possiamo vedere le stelle ma non possiamo raggiungerle, toccarle, annusarle, lo spazio infinito ci è precluso, è un’esperienza che non potremo mai vivere; possiamo però immaginare, ma immaginare cosa?

Tutto quello che l’uomo può immaginare è comunque condizionato e limitato dalle poche conoscenze acquisite, oltretutto compresse in uno spazio-tempo estremamente breve, l’intera vita di un uomo se rapportata al tempo universale non è neppure equiparabile e un miliardesimo di un battito di ciglia. Nessuno è mai stato là, Nessuno può raccontarci come realmente sia.

Lo stesso possiamo dire dell’aldilà, quel “dopo la morte” tanto caro agli antichi Egizi.

Quindi penso sarebbe opportuno, per affrontare correttamente questo argomento, reinterpretare, allargandola, la famosa tesi di Schopenhauer per la quale il mondo è una rappresentazione dell’uomo, ipotizzando che l’uomo sia esso una rappresentazione del mondo, che sia l’universo ad osservare i brevissimi spot di una effimera creatura impegnata a costruire concetti astratti come “Spirito assoluto” e “Io assoluto”, veri e propri artifici della ragione. Per questo motivo ritengo che la domanda corretta dovrebbe essere: “Supponete l’esistenza di un’intelligenza universale?”.

Il geroglifico che indicava il Dio inconoscibile “Nether”, il padre di tutti gli Dei, (evoluzione grafica): il segno raggiunse una immagine definitiva nel periodo in cui furono erette le prime piramidi (A), in precedenza era utilizzato un segno sempre a banderuola con lo stesso orientamento (B), le forme più antiche del segno risalgono all’epoca preistorica e presentano un orientamento opposto con 2, 3 o 4 banderuole pendenti (C).
Il geroglifico che indicava il Dio inconoscibile “Nether”, il padre di tutti gli Dei, (evoluzione grafica): il segno raggiunse una immagine definitiva nel periodo in cui furono erette le prime piramidi (A), in precedenza era utilizzato un segno sempre a banderuola con lo stesso orientamento (B), le forme più antiche del segno risalgono all’epoca preistorica e presentano un orientamento opposto con 2, 3 o 4 banderuole pendenti (C).

Perché l’universo è un “continuum” spazio temporale dove tutto è compenetrazione e interdipendenza, è un “unicum” talmente complesso che qualunque interpretazione umana ad esso riferita risulterebbe, in quanto priva di esperienze, inesorabilmente falsa; la grammatica umana non potrà mai dialogare con un’ipotetica armonia matematica, con un’equazione super complessa che contempli l’avvicendarsi di un numero infinito di rappresentazioni. Tuttavia pur trovandoci nell’impossibilità di unire le conoscenze e le esperienze del mondo sensibile con quelle sconosciute del sovrasensibile, non possiamo però mascherare con giri di parole l’incapacità di comprendere, per ignoranza, per mancanza di dati certi, e rifugiarci in un assurdo atto di fede costruito attorno ad un ipotetico essere supremo, cementandone la figura con l’alibi dell’intangibilità.

Sarebbe troppo comodo e troppo facile, cosa è l’uomo se non una breve rappresentazione collettiva moltiplicata nel tempo, cosa sono le divinità se non rappresentazioni della mente umana; le religioni e anche la filosofia bene farebbero ad abbandonare la pretesa di spiegare la ragione per cui il mondo esiste, soprattutto le religioni poi dovrebbero evitare di descriverne un’origine demiurgica ormai inaccettabile persino in un fumetto.

Questa “entità” o “singolarità” sovrasensibile potremmo forse interpretarla attraverso il concetto kantiano della “realtà noumenica” che si riferisce a tutto ciò che è inconoscibile alla soggettività degli uomini perché impercepibile e inimmaginabile; tuttavia non trovando riscontri a livello umano nelle conoscenze e nelle esperienze acquisite, questa “cosa” sfugge e sfuggirà sempre a qualunque interpretazione.

Osserviamo quindi le luci nel cielo e accontentiamoci di supporre, declassandoci umilmente al ruolo di osservatori di fenomeni più grandi noi, che esse a loro volta possano percepire, forse con rispetto e perché no! Con amore, il nostro fuggevole attimo, la nostra brevissima rappresentazione; a noi mortali vincolati alle leggi del sensibile non resta che farcene una ragione, le finalità dell’intelligibile rimarranno per sempre oscure.

Ci rimane invece la storia degli uomini, anch’essa in molti casi oscura o meglio: oscurata, per non turbare gli animi semplici, per fare in modo che il gregge non alzi la testa, che nulla cambi se non quel poco che serve ai grandi affabulatori di anime per continuare il loro astuto lavoro e imparare dagli Egizi che in una brevissima frase riferita a quell’umile ideogramma bendato hanno condensato il loro pensiero ontologico definendolo il simbolo: “dell’Uno che si fa milioni” esplicitando che quei milioni, “il Tutto”, fanno parte dell’Uno.

(Torna alla PRIMA PARTE dell’articolo o prosegui per la TERZA PARTE)

Nefertum

Nefertum