EGITTOSOFIA: le radici dell’esoterismo egizio e la sua derivazione massonica.

L’obelisco detto dal Kircher “Pamphilius” è l’obelisco “Alessandrino” portato a Roma da Domiziano che Gian Lorenzo Bernini nel 1651 posizionò in piazza Navona, dove è visibile ancora oggi inglobato nella “Fontana dei Quattro Fiumi”.
Per comprendere pienamente le astruse traduzioni del gesuita tedesco basta confrontare la traduzione di Orazio Marucchi:«Oro risplendente che fa fiorire i due paesi, figlio del Sole e del suo fianco che l’ama, Uahabra da Neit nella sede dell’ape nel basso Egitto, amato, datore di vita come il Sole in eterno».
Con quella di Athanasius Kircher: «Hemphta, il supremo spirito e archetipo, infonde la sua virtù e doni nell’anima del mondo sidereo cioè lo spirito solare a esso sottoposto, da lì proviene il movimento vitale al mondo materiale o elementare, l’abbondanza di tutte le cose e la varietà delle specie. Dalla fruttificazione del bacino di Osiride nel quale, attratto da una qualche simpatia meravigliosa, fluisce continuamente, forte del suo stesso duplice dominio».

La riscoperta storico-archeologica dell’Antico Egitto ha inizi decisamente recenti, due date ravvicinate: il 1798 (anno della spedizione militare di Napoleone Bonaparte in Egitto) e il 1824 (anno della pubblicazione da parte di Jean-Francois Champollion del volume intitolato “Précis du système hiéroglyphique des anciens egyptiens”); pima di queste due date dell’Antico Egitto se ne sapeva ben poco se non alcune notizie storiche, in buona parte inattendibili, raccolte da Erodoto, nel corso di un suo viaggio in Egitto (compiuto attorno al 445 a.C.), alcuni stralci di Giuseppe Ebreo tratti da un’opera perduta di Manetone (Aegyptica), e citazioni riportate da Strabone e Diodoro Siculo.

Sarebbe quindi più corretto dire “non se ne sapeva nulla”. Ai tempi della spedizione napoleonica la lingua egizia era morta da almeno diciotto secoli, tuttavia il fascino dell’Antico Egitto si era risvegliato con forza già in epoca medioevale con le traduzioni dei classici greci e latini dove la terra dei Faraoni era citata con rispetto e considerazione ma con poca dovizia di particolari lasciando nel lettore un certo sgomento, soprattutto per l’alienità di quelle inquietanti rappresentazioni di esseri, probabilmente divini, con teste animali e viceversa. Quel poco che si sapeva ruotava attorno a due testi in cui gli autori raccontavano un Egitto fantastico basato su personali e irreali traduzioni della scrittura geroglifica che diedero origine al falso preconcetto che vedeva nei geroglifici una scrittura magica, simbolica ed occulta, accessibile soltanto agli iniziati ad una remota sapienza segreta; ciò esponeva la storia e la religiosità dell’Antico Egitto a grossolani fraintendimenti già ad iniziare dal 300 a.C. (i primi a sproloquiare sull’Egitto furono i greci che lo visitarono in massa, ma non comprendendone la lingua si accontentarono di resoconti inaffidabili).

Pagina n° 444 del volume “Obeliscus Pamphilius” pubblicato dal Kircher nel 1650. Non fu il solo volume dedicato all’Antico Egitto dal noto cattedratico: “Oedipus Aegyptiacus” (1652/1654) e “Lingua Aegyptiaca Restituta” (1643).
Ancor più sconvolgente è la traduzione del testo inciso sulla facciata Sud dell’obelisco, traduzione post Champollion: «Horus, forte toro, amato da Maat».
Traduzione del Kircher: «Alla Triforme Divinità Hemptha – prima Mente, motore di tutte le cose, seconda Mente, artigiano, Spirito pantamorfico, Divinità Trina, eterna, senza inizio né fine, Origine degli Dei secondari, che, diffusi dalla Monade come da un certo apice nell’ampiezza della piramide mondana, conferisce la sua bontà in primo luogo al mondo intellettuale dei Geni, che, sotto il Sovrano Guardiano del Coro Meridionale e tramite seguaci rapidi, efficaci e risoluti Geni che non partecipano a nessuna sostanza semplice o materiale, comunicano la loro virtù partecipata e potenza al Mondo inferiore».

Basta leggere Eliodoro (III° secolo d.C.) secondo il quale Omero era figlio di Ermete Trismegisto (Etiopiche) o Strabone (64 a.C. / 21 d.C.) che ci racconta di aver visitato le piramidi di Giza senza però aver notato la Grande Sfinge (Geografia XVII° libro), per non parlare del trattato “Hieroglyphica”, un’opera perduta suddivisa in due volumi del misterioso Orapollo Nilotico, scritta in lingua copta, risalente al IV° secolo d.C. (giunta sino a noi in una versione in lingua greca risalente al XV° secolo), rivelatasi in seguito totalmente inattendibile; Tuttavia l’apogeo della disinformazione fu raggiunto dopo circa un migliaio di anni con il volume “Lingua Aegyptiaca Restituta”, del gesuita tedesco Athanasius Kircher pubblicato a Roma nel 1643, portatore di un cervellotico metodo di traduzione dei geroglifici decisamente fantasioso, tuttavia, nonostante le traduzioni del Kircher non avessero nulla a che vedere con i contenuti dei testi originari della terra dei faraoni, la fama dell’individuo (professore presso le Università di Wurzburg e Avignone, per di più membro della Pontificia Università Gregoriana), fu determinante all’epoca per farle ritenere corrette. Oltre tutto essendo il Kircher, come disse Cartesio: “più ciarlatano che sapiente”, non si fece scrupolo nel sostenere addirittura che le incisioni geroglifiche presenti su alcuni templi egizi altro non erano che passi della Bibbia, che Ermete Trismegisto era in realtà Mosé, che Adamo ed Eva parlavano in geroglifico e che su di un obelisco trasportato a Roma, gli Egizi, in chissà quale epoca, avevano inciso un inno alla Santissima Trinità. Fu in questo panorama decisamente onirico, dove fantasie e realtà galoppavano a briglia sciolta, che nel 1799 la famosa “stele di Rosetta” calò inesorabile, come la lama della ghigliottina, separando i sogni dalla realtà e aprendo le porte ad una nuova disciplina: l’egittologia.

Senza questa porzione di stele in diorite nera con sopra inciso in tre lingue un decreto di epoca Tolemaica risalente al 196 a.C. (quattordici righe nella parte superiore in geroglifico, trentadue righe nella parte centrale in demotico, e cinquantaquattro righe nella parte inferiore in greco antico), probabilmente il linguaggio geroglifico non sarebbe mai stato tradotto.

Il constatare che prima della decrittazione di Champollion l’Egitto faraonico era una lavagna nera sulla quale nessuno aveva mai scritto nulla di attendibile da secoli, non ci aiuta nella nostra specifica ricerca, anzi ci fa naufragare in un grande oceano di congetture, di ricostruzioni ipotetiche, ritenute vere unicamente perché mai contestate o perché mascherate da un finto velo pseudo tradizionalista, alle quali però, in amore di verità, occorre porre rimedio.

Inoltre la capacità di tradurre correttamente i geroglifici non fu immediata, le premature morti di Champollion e del suo collaboratore e continuatore, Ippolito Rossellini, ne rallentarono lo sviluppo; da allora, nonostante l’encomiabile lavoro di centinaia di egittologi siamo ancora ben lontani dall’aver tradotto tutto ciò che gli Egizi, grafomani all’ennesima potenza, scrissero ovunque e su ogni cosa, negli oltre 5.000 anni della loro esistenza (secondo la lista di Manetone).

Per di più in epoca greco-romana gli scribi, forse a causa di un ormai avanzato decadimento culturale, iniziarono a comporre le parole in modo del tutto personale, trasformando le frasi in rebus talvolta irrisolvibili, come nel tempio di Esna dove è visibile un testo (ancora oggi indecifrabile) composto da 350 segni dei quali 230 sono coccodrilli. Ripartiamo allora da una delle date citate all’inizio: 1824 (apparizione del primo vero metodo di traduzione del linguaggio geroglifico), prima di quella data l’Antico Egitto che conosciamo oggi non c’era, eppure molti personaggi cavalcando questo Egitto inconoscibile sono diventati famosi in ambiti esoterici. Dobbiamo quindi chiederci dove avevano acquisito ciò che raccontavano: storie, riti, tradizioni, ma soprattutto da chi e quando? Da medium, sciamani, sensitivi, maghi, alieni?

Quale Egitto potevano conoscere Theophrastus Bombastus di Hohenheim meglio conosciuto come Paracelso (nato nel 1493), Michel de Notre-Dame, Nostradamus (nato nel 1503), Giordano Bruno (nato nel 1548), Robert Fludd (nato nel 1574), Elias Ashmole (nato nel 1617), Christopher Wren (nato nel 1632), Giuseppe Balsamo conte di Cagliostro (nato nel 1743)?

Soltanto quello di seconda mano ereditato da Greci e Romani, testimoni di un Egitto ormai snaturato che ben poco sapeva dei costruttori delle grandi piramidi di Giza, basta pensare che la prima citazione che arrivò in Occidente sull’esistenza della Grande Sfinge la dobbiamo a Plinio il Vecchio (morto nel 79 d.C.), infatti è ormai provato che in epoca Tolemaica la Sfinge era ricoperta dalla sabbia e dimenticata.

Un altro esempio tangibile di un Egitto inesistente è la famosa “Mensa Isiaca”, un manufatto in bronzo con intarsi di vari metalli di grandi dimensioni (75 x 130 centimetri) custodito presso il Museo Egizio di Torino, realizzato in Italia tra il I° secolo a.C. e il I° secolo d.C. probabilmente per il tempio di Iside fatto costruire da Caligola al Campo Marzio (acquistato dal cardinale Pietro Bembo nel 1592 fu ceduto al Duca di Mantova, Vincenzo I° Gonzaga).
Fu oggetto nel 1605 di uno studio da parte dello storico antiquario Lorenzo Pignoria che, nell’introduzione alla sua relazione prende le distanze dalle fantasie egizie in voga nel periodo, dichiarando: «Esporrò come posso le figurazioni di questa tavola non in modo allegorico, ma basandomi sulle testimonianze degli Antichi. Detesto sopra ogni altra cosa le interpretazioni di questo tipo, molto spesso prive di senso, che i (neo) Platonici, dimentichi dei precetti dei loro maestri, espongono per confermare favole senza alcun fondamento».
Inoltre il Pignoria sostenne di non capire i testi geroglifici e di non avere alcuna possibilità di ricavarne alcun significato, ma non avrebbe potuto comunque ricavarne alcunché, i geroglifici sono totalmente inventati, le presunte divinità raffigurate, anche se realizzate in stile egizio, presentano attributi inediti e inconsueti che non hanno nulla di egizio.
(copia della Mensa Isiaca riprodotta nel Thesaurus Hieroglyphicorum (1610) di Georgius Herwart von Hohenburg).

Molte correnti esoteriche danno per scontate cerimonie iniziatiche nell’Antico Regno definendoli i “misteri di Osiride” che si tenevano ad Abido, ma tutte le descrizioni sino ad oggi tradotte le indicano senza ombra di dubbio come cerimonie pubbliche, caratterizzate da una grande processione, prima triste e poi gioiosa, culminante con una sfrenata danza liberatoria finale, nulla a che vedere con i riti misterici greci e romani, dei quali comunque non si conosce quasi nulla.
Inoltre nell’Antico Egitto non vi era necessità di eventuali iniziazioni, per altro vietate dal sistema regale egizio, era il Faraone a nominare sacerdoti e funzionari, ne abbiamo conferma dalle “dottrine sapienziali egizie” che ignorano i sacerdoti ma elevano gli scriba, essi sono coloro che sanno, coloro che grazie alla padronanza delle scritture hanno accesso alla vera conoscenza; forse questo ci spiega come mai i dotti greci che visitarono la terra dei faraoni ne riportarono notizie vaghe e contraddittorie, dichiararono sempre di aver dialogato con dei sacerdoti mai con degli scriba.
Eppure Marco Minucio Felice, un apologeta cristiano deceduto a Roma attorno al 250 d.C. descrive le feste di Abido come rituali pubblici, commentandoli però con un po’ di sarcasmo: “I poveri adoratori di Iside si battono il petto ed emulano il dolore della madre sfortunata. Subito dopo viene ritrovato il piccolo (Horo il giovane) e Iside si rallegra, i sacerdoti esultano e il testa di cane (Anubis) é festeggiato come ritrovatore. Tutto questo si ripete di anno in anno…”.
Neppure nel Nuovo Regno appaiono evidenti tracce di ermetismo, anche se nella tomba del sacerdote Neferhotep, nel testo denominato “canto dell’Arpista”, si può intravedere una specie di cammino iniziatico che può essere percorso però solo dai defunti, da tutti gli Akh dei defunti che hanno superato la Psicostasia; le cose invece cambiano in epoca ellenistica, quando vengono importati in Egitto e amalgamati alle cerimonie locali i culti misterici greci, dove soltanto l’iniziato può accedere alla corsa del Sole attraverso la notte, questi misteri riveduti, classificati come “piccoli Misteri” (quelli di Iside) e “grandi Misteri” (quelli di Osiride), si diffusero poi in tutto il Mediterraneo.
Quando Giuseppe Balsamo conte di Cagliostro nel 1728 fondò a Napoli la Loggia di Rito Egizio “Perfetta Unione” non poteva in alcun modo aver conoscenza di una vera ritualità egizia, come non possiamo averla noi oggi; poteva invece aver attinto alle descrizioni di quegli scrittori di epoca classica che si erano interessati all’Egitto e ai “piccoli” e “grandi” Misteri, tra i quali: Erodoto, Giamblico, Plutarco e Apuleio.

Ritroviamo una problematica simile anche nella Massoneria di Rito Scozzese nel momento in cui unisce le corporazioni di costruttori di cattedrali gotiche ai Cavalieri del Tempio, due mondi psicologicamente lontani tra di loro che sicuramente, si incontrarono e interagirono, ma che mai risultarono complementari.

I Cavalieri del Tempio erano uomini di fede autorizzati ad uccidere in nome della fede (dal punto di vista del cristianesimo delle origini, quello degli eremiti, dei cenobiti e degli anacoreti, un abominio), i costruttori di cattedrali erano dei lavoratori edili che grazie alle loro grandi capacità avevano ottenuto lo status di “free-masons” o “franc-macon”, ovvero “liberi muratori”, e liberi lo erano davvero, le corporazioni di “Compagnon” in epoca medioevale erano organizzazioni sovranazionali, potevano svolgere il loro lavoro in ogni paese e per qualunque committente, sia in tempo di pace che in tempo di guerra.

Repliche di un Bay (in alto) e di un Merkhet (in basso) realizzate per sperimentarne le funzionalità nella tracciatura degli assi degli edifici, ciò ha evidenziato che questi strumenti dovevano essere utilizzati da due persone contemporaneamente, una della quali sosteneva il Merkhet e l’altra lo traguardava attraverso la scanalatura del Bay, più o meno quello che si fa attualmente con un teodolite e una stadia (asta graduata).

Il martello, la squadra, il compasso, il regolo, il filo a piombo, il grembiule, derivano da questo glorioso passato dove il Compagnon non lavorava soltanto la pietra ma anche sé stesso par passare da apprendista a maestro. Anche in questo caso, sia da parte degli edili “operativi”, che degli eruditi “speculativi”, non sembra sia mai pervenuto un Rituale originario da cui attingere, probabilmente, come per il Rito Egizio, si rese necessario crearne uno di sana pianta, facilmente assimilabile dalle due realtà, attingendo da ciò che era disponibile, cristianesimo ed ebraismo, catapultandosi alla ricerca di un’autorevolezza mancante indietro nel tempo sino a Salomone e al Tempio di Gerusalemme, elaborando il mito legante dell’inesistente architetto Hiram Abif.Ciò non significa che le due ritualità siano false, sono decisamente vere e necessarie, come lo sono state e lo saranno le ritualità di tutte le istituzioni religiose e non religiose che opereranno durante l’esistenza degli uomini.

Merkhet databile al 600 a.C., è conservato presso l’Altes Museum di Berlino, realizzato in bronzo con testo geroglifico intarsiato con metallo elettro. Il dispositivo è stato dotato di una replica del filo a piombo, probabilmente attorno al 1913. Come strumento di cronometraggio, il Merkhet sarebbe stato utilizzato per determinare il trascorrere delle ore, tramite il sole durante il giorno e delle stelle selezionate attraverso il meridiano nord-sud durante la notte. È probabile che la misurazione richiedesse l’utilizzo contemporaneo di due Merkhet e un Bay, con il primo allineato con la Stella Polare. Questo perché a causa della rotazione della Terra attorno al proprio asse, nell’emisfero boreale tutte le stelle sembrano ruotare attorno alla Stella Polare, la quale, essendo situata proprio in prossimità della proiezione in cielo dell’asse di rotazione terrestre, appare ferma. Tenendo dunque la Stella Polare come punto di riferimento con il primo Merkhet, gli Antichi Egizi osservavano il transito e l’allineamento di determinate stelle con il secondo Merkhet, dotato di Bay; grazie a questo utilizzo combinato dei tre strumenti riuscivano quindi a stimare lo scorrere del tempo anche durante le ore notturne.

Tutti i riti sono ovviamente inventati, non nascono dal nulla, a meno che non siamo disposti a considerarli in senso religioso “rivelati”, la cosa sarebbe alquanto buffa, contemplerebbe l’intervento di qualche migliaio di divinità desiderose di dialogare con gli uomini; altro che “torre di Babele”, forse sta proprio qui la spiegazione dell’esistenza di tutte queste lingue che dividono gli uomini:

migliaia di dei, migliaia di lingue.

Scherzi a parte, i Riti non agiscono nella storia, non conquistano imperi, agiscono ad un diverso livello, operano nella psiche, lavano o inquinano la mente, allontanano o incutono la paura, alcuni predispongono attraverso la conoscenza l’uomo all’infinito.
Questo è lo scopo, questo è il fine, il Rito è lo strumento, l’Uomo è il fango da plasmare, nuovo o antico che sia lo strumento, vero o inventato, non ha importanza, è soltanto il fine che conta, un uomo migliore nell’oggi, soddisfatto della propria opera, sarà un’anima felice nel momento del passaggio.
E se poi l’aldilà non ci sarà, non avrà alcuna importanza. Se ci sarà, sarà una gradita sorpresa.

Rimanendo nell’ambito dell’affollato simbolismo massonico, prendendone in esame alcune immagini fondamentali: il regolo, la squadra e il filo a piombo, ecco che, spingendoci molto indietro nel tempo, scavalcando con un solo balzo temporale gli abilissimi costruttori delle grandi cattedrali gotiche, possiamo ravvisare, in uno strano strumento di misura (in realtà due) risalente all’Antico Egitto, origini della Massoneria ancor più remote di quelle legate all’edificazione del Tempio di Salomone.

Questo strumento di alto valore scientifico si chiamava “merkhet”, fu creato dagli Egizi con un duplice scopo, misurare il tempo durante la notte osservando la posizione delle stelle (con funzione complementare rispetto agli orologi solari portatili, il più antico risale al 1500 a.C., e agli obelischi, di cui gli Egizi si servivano come fossero gnomoni durante il giorno) e di eseguire misurazioni utili nell’edificazione degli edifici sacri, nelle tracciature dei campi e nella costruzione di argini e grandi vasche per la raccolta dell’acqua.

Nelle immagini Merkhet conservato presso lo Science Museum di Londra (dimensioni: 25 mm x 93 mm x 22 mm, peso: 0,098 kg) donato dal noto egittologo britannico Howard Carter, scopritore della tomba di Tutankhamon; l’iscrizione geroglifica racconta che questo strumento era di proprietà di Bes, figlio di Khonsirtis, un astronomo, sacerdote del dio Horus di Edfu, nell’Alto Egitto.

Il “Merkhet” (parola che in lingua egizia significa, “strumento di conoscenza“) realizzato in legno, metallo o osso, era costituito da un regolo orizzontale formante una corta squadra ad una delle estremità, al centro della quale era fissato un filo a piombo; da diversi testi si è appreso che era usato assieme a uno strumento che fungeva da “mirino” o “traguardo”, detto “Bay”, realizzato generalmente utilizzando una nervatura di palma con un intaglio a forma di “V” alla sommità che indicava la corretta centratura dell’ipotetica retta da tracciare.
Ecco quindi che uno “strumento di conoscenza” documentato in testi risalenti addirittura al 2.600 a.C.

precipita e rende tangibili nel mondo materiale trefondamentali simboli esoterici della Massoneria, ci troviamo allora al cospetto di una conferma di un’origine così remota?

Non lo sappiamo e probabilmente non lo sapremo mai, certo è invece che ciò che non è scritto può essere giunto sino a noi attraverso la memoria ancestrale o collettiva, come ha proposto l’egittologo Jan Assmann nel suo libro edito nel 1992 “La memoria culturale – Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche”, una sorta di retrocognizione inconscia che trascende la gabbia della memoria individuale, che ci fa scoprire tra le righe degli antichi testi Egizi insegnamenti profondi che ritroviamo guarda caso nel “corpus” filosofico della Massoneria.

Nefertum