SECONDA PARTE
Concluso questo breve quadro sinottico delle peculiarità beneventane e tornando alla nostra Iside grande di magia, sembra che il suo culto sia stato importato nel Sannio, intorno al II secolo a.C., da una colonia alessandrina che si era stabilita tra l’Appia e la Traianea. La divinità, in specie nei suoi aspetti uranici, ebbe largo seguito tra la popolazione autoctona che da parte sua era particolarmente incline, come si è accennato, alla magia, al mistero e ai culti iniziatici.
Sulla struttura del santuario di epoca repubblicana si possono fare, in mancanza di una documentazione archeologica probante, solo supposizioni, ma da esso provengono sicuramente una scultura mutila di Iside Pelagia, un toro Apis in marmo, ambedue del I secolo a. C. e forse alcuni reperti di epoca faraonica e tolemaica, a meno che non facciano parte dell’arredo antiquario attribuibile alla munificenza di Domiziano (fine sec. II d. C.). Si ipotizza che fosse dedicato a Iside Pelagia, certo è che dovette acquisire una certa notorietà e divenire meta di pellegrinaggi da tutto il Sannio, tanto che nell’88 d.C. Domiziano decise di ricostruirlo dalle fondamenta in forme monumentali e lo arredò facendo arrivare i materiali ornativi direttamente da Alessandria.
Da alcuni elementi è possibile immaginarne l’assetto di tipo ellenistico con prostilo tetrastilo, eretto su un alto podio, al quale si accedeva tramite una scalinata e un viale monumentale. Il programma figurativo era realizzato in stile egiziano con la tecnica del bassorilievo per la decorazione interna e dell’incavo per l’esterno.
Una lapide, oggi dispersa, documentava che alla fine del III secolo Caio Umbro Eudrasto aveva fatto eseguire a proprie spese ulteriori ampliamenti, o forse solo lavori di restauro, nei sacelli di Osiride canopo e Iside Menuthis, gestiti dal collegio sacerdotale dei Martenses Infraforani. (Giovanni De Vita, Thesaurus antiquitatum Beneventanarum, Romae 1754-1764, pag. 169) .
Di grande rilevanza, per le informazioni che contengono, sono i due obelischi superstiti, uno dei quali è riutilizzato al centro della città. In granito rosa, alto circa tre metri, similmente all’elemento gemello, conservato in vari pezzi nel citato museo, porta, su tutte e quattro le facce, scritte in geroglifico che inneggiano a Domiziano, augurandogli lunga e felice vita, a Lucilio “dal bel nome” che ha donato gli obelischi, ad Horus nei due aspetti di Giovane e Vecchio, ad Osiride ed Iside. Molto interessanti sono anche gli epiteti rivolti alla dea che è “La grande madre di dio, Sochis, signora delle stelle e signora del cielo, della terra e del mondo sotterraneo, signora di Benevento, occhio del sole e signora di tutti gli déi”.
Sembra che il santuario sia stato frequentato fino all’editto di Tessalonica (380 d. C.) che dichiarò l’abbattimento di tutti i templi antichi, soprattutto quelli di Iside, quando i fanatici della nuova religione lo rasero letteralmente al suolo uccidendo ministri del culto e devoti.
Dal quadro storico che si è proposto si arguisce che a Benevento, fin dai tempi in cui si chiamava Maloenton, doveva esistere, come in tutti i touti italici un collegio femminile addetto al culto della divinità locale. Quasi sicuramente si trattava di Mefite (colei che inebria) gran madre ctonia che presenzia i passaggi, congiungendo gli aspetti oppositivi delle condizioni duali (ad esempio la nascita e la morte), il cui culto è ampliamente attestato, per restare nei confini geografici che ci interessano, in tutto il Sannio, l’Irpinia e i Campi Flegrei. Celebri, nell’amplissima letteratura che la riguarda, sono i versi che le dedica Virgilio, collocandola alle bocche dell’Averno, nella Valle dell’Ansato (Virgilio, Eneide, VII 563 – 571).
Certamente il collegio femminile italico, che praticava rituali magici, salutari e mantici, assunse qualche ruolo anche nella gestione del santuario di Iside, soprattutto in quegli ambiti in cui vantava una secolare esperienza; né le cose cambiarono dopo la romanizzazione del territorio che non fu mai totale. La tradizione non si interruppe nemmeno con l’arrivo dei Longobardi, popolo di largo sincretismo culturale, ma al contrario si arricchì di nuovi elementi magico -religiosi, come le cerimonie celtiche al lume della luna, non dissimili dai notturni riti per Mefite, come il culto totemico della vipera anfisbena d’oro, che aveva una certa affinità con il rettile di bronzo deposto nella cista mistica dell’Iseo, o quello dell’albero sacro, intorno al quale i giovani arimanni compivano i riti di passaggio dall’infanzia all’età puberale-
Gli effetti dell’Editto di Tessalonica, però, si erano già fatti sentire sull’Iseo di Benevento, le cui macerie vennero in parte riutilizzate per rafforzare la cinta urbica delle mura longobarde e per la costruzione della abbaziale di Santa Sofia. A questo si aggiunse il fatto che mil clero organizzò una campagna persecutoria contro i collegi sacerdotali femminili che avevano continuato ad esercitare, più o meno segretamente, vaticini, pratiche magiche e salutari, ma anche un erotismo libero.
Da tutto questo alla invenzione e successiva condanna del sabba notturno il passo è breve. L’annosa chioma di un noce che stava sulla strada che conduce da Benevento a Pietralcina, divenne il ritrovo notturno delle Janare come documenta nel 1273 un notaio che scrive: “iuxta viam, qua itur a Benevento ad Pietram Pulcinam iuxta nucem dictam Ianarum”.
Non c’è nulla di più vero di quello in cui si vuol credere, e difatti, qualche secolo dopo Pietro Piperno, protomedico beneventano, detto l’Oscuro in una delle tante accademie arcadiche che fiorivano in quel 1639, è arciconvinto che il sabba sia un fatto storico ed indubitabile, che si tiene in “ripa janara, dove scorre il fiume sabato. E dopo averne dato molti esempi, in un “Tractato Historico, dal lunghissimo titolo, si ingegna ad illustrare con acribia scientifica “Del luogo ove era questa superstitiosa noce e dell’altre pullulate ancor in altre parti del distretto di Benevento; Delle cause per le quali le streghe si radunano più in questo che in altri luoghi e perché quei che esercitano tale esercizio sono per lo più donne”.
A conforto delle sue teorie, chiama in causa l’autorità di alcuni studiosi le cui opere erano molto apprezzate.Apre citando Silvestro da Prierio, (Mondovì 1456 – Roma 1527) inquisitore domenicano e autore, di un imponente trattato telogico (Summa summarum quae Silvestrina dicitur) con una sezione dedicata alla stregoneria e chiude con Paolo Grillando giudice pontificio che con il Tractatus de hereticis et sortilegiis (1536), ribadisce l’esistenza dei sabba e ne descrive le caratteristiche.
Il punto centrale della storia narrata da Pietro Piperno è “il luogo della noce superstitiosa e li idoli della Amphifibena che a quel tempo li Beneventani adoravano”. Dunque per il protomedico filosofo tutto aveva avuto inizio con i Longobardi, ariani peccatori, che adoravano la vipera a due teste, intorno a quel noce, abbattuto a colpi d’ascia da San Barbato.
Ma il diavolo, si sa, fa più pentole dei Santi Vescovi, i quali dal canto loro s’ingegnano a scoperchiarle, e fu così che il noce ricrebbe in una sola notte e, da quel momento, divenne “radunanza e unione della maggiori streghe e maghe del mondo, quali anco da lontanissimi paesi si radunano quivi per opera de’ demoni di notte”. E se le Janare sono donnette di paese, a non più di quattro miglia da Benevento, scelse di abitare addirittura la celebre maga Alcina “che accese del suo amore Ruggero di Bradamante con privarlo dell’amor d’ogni altra donna”.
Con tutto questo, arie ariostee comprese, Iside c’entrerebbe poco o niente, se non fosse per le Janare, corruzione locale di dianare donne al seguito di Diana, detta la Signora del gioco di cui parla ampiamente Carlo Ginzburg nella sua Storia notturna.
Il riferimento a Diana infatti lancia un filo (che per quanto sottile, tuttavia è l’unico possibile da dipanare in questo labirinto), a due epiclesi isiache incise sugli obelischi e precisamente a quell’accenno alla “signora del mondo sotterraneo” che è un chiaro riferimento a Mefite che i Sanniti accomunavano a Diana, a Persefone, al mondo dei morti, e ai misteri di Iside che costituiscono un ponte onirico con l’aldilà.
Allo stesso modo quella “signora del cielo” che, pur privo dell’aggettivo notturno, essendo Ra-Horus il signore del cielo risplendente, rimanda, senza possibilità di equivoco, alla luna, all’oscurità, a Diana. E Diana, a sua volta, rimanda Ecate, la dea triforme, la signora dei trivi, dove si radunano le ombre e i fantasmi notturni, la signora metamorfica delle zoofanie, la maga che assiste Medea nel suo orrendo proposito di vendetta: “tuque, triceps Hecate, quae coeptis conscia nostris / adiutrixque venis cantusque artisque magorum, / quaeque magos”. (Ovidio, Metamorfosi, VII, 186-196).
Per le fonti e la bibliografia si fa riferimento a: Maria Concetta Nicolai, Iside la maga, Ianieri Edizioni, Pescara 2020, da cui questo articolo è stato tratto e rielaborato.
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